"In passato i piloti non ci hanno mai segnalato quella curva come bisognosa di modifiche. La fatalità è stata che Luis Salom ha colpito la sua moto e non le barriere di protezione, che nell'occasione hanno fatto il loro dovere”.
Fatalità. Così si è espresso Franco Uncini, responsabile della sicurezza nel Motomondiale, sulla morte del pilota spagnolo, facendo chiarezza sulla dinamica del botto - è stato il pilota a colpire la moto “rinculata” dalla barriere e non viceversa - e senza tirare in ballo qualsivoglia responsabilità degli addetti alla sicurezza. Destino e sfortuna, dunque, ma nessuna imperizia da parte degli addetti ai lavori.
Semmai, lasciano intendere le parole di Uncini, una discutibile valutazione del rischio da parte di chi quello stesso rischio lo corre in prima linea ed è tenuto a farlo presente all’organizzazione, i piloti. Attenzione: discutibile, non giocoforza errata. Perché, come ha puntualizzato Valentino, è impossibile mettere in sicurezza ogni punto del circuito, specie in caso di guasto, com’è intuibile sia occorso a Salom. “Se succede un problema tecnico ci sono 300 punti dove non ci sono spazi di fuga. - ha detto Rossi - Questi ultimi sono programmati per una caduta normale, ma se uno va dritto e la curva non la fa, ogni punto è pericoloso”. Lampante.
In attesa degli accertamenti all’origine del dritto, va altrettanto evidenziato come in questo caso le “air fence" - protezioni gonfiabili in gomma ed elastiche per assorbire i colpi - fossero ben posizionate. Peraltro all’esterno di una curva, la 12, posta a breve distanza da un lento appoggio a destra che impedisce alle moto di accumulare velocità di percorrenza temibili (si entra a circa 150 km/h), neanche lontanamente equiparabili a quelle del celeberrimo “Tramonto” di Misano e comunque minori di quelle raggiunte in curva 9 sulla stessa pista catalana.
Ma nessuna misura di sicurezza al mondo, attiva e passiva, potrà mai contrastare le inerzie che una caduta innesca ed evitare che il pilota vada a schiantarsi contro la sua stessa moto. Così come non può evitare il rischio che, in certi punti, un pilota resti in traiettoria dopo una scivolata e finisca investito dagli inseguitori, proprio come successo negli ultimi anni a Simoncelli, Tomizawa, Perilli. O che resti, appunto, vittima di una qualsiasi avaria tecnica ad altissima velocità: Baz, Redding, Nakano e Stoner sono autentici miracolati, scampati alla morte solo per la fortuna di non aver impattato a muro.
Mezzo metro più in qua o in là e anche Salom sarebbe stato inghiottito dai materassi, con possibilità di cavarsela ben più ampie malgrado velocità e angolo di impatto (frontale) gli fossero sfavorevoli. Si può eventualmente discutere la soluzione adottata per la via di fuga, forse la sabbia avrebbe aiutato a frenare moto e pilota più dell’asfalto (pensato più per permettere un rapido rientro in pista in caso di lungo), o forse non sarebbe cambiato niente.
Il fatto è che, al netto di ogni retorica partorita sulla scia dell’emozione, il rischio di morire esiste perché strettamente intrecciato al dna del motorsport, essendone una parte integrante e per fortuna sempre più residua, ma che non potrà mai essere del tutto esclusa. L’ombra della morte, di pari passo allo spettacolo in pista, contribuisce all’epica della narrazione. Tutti, piloti in primis, ne sono consapevoli sebbene tentino di esorcizzarla per l’umana tendenza all’evitamento (e all’autoconservazione). È un rischio ponderato e circoscritto, ma c’è. C’è!
Allora, se fatalità è stata, se nessuno prima d’ora aveva bollato quella via di fuga come inadeguata, perché cambiare il layout della pista? Questa è la contraddizione. “Abbiamo stabilito che non potevamo continuare con lo stesso disegno di tracciato visto che si è verificato un simile incidente. - ha dichiarato Ezpeleta - Così si è deciso collegialmente di effettuare questa modifica secondo le indicazioni dei piloti”.
Una delegazione di quegli stessi piloti che non avevano mai ritenuto necessario intervenire prima che il dramma si compiesse. Eppure al Catalunya si corre da sempre. Allora cos’è: l’impulsivo dietrofront per prevenire possibili bis, avallando la variante prudenziale, o senno di poi, ovverosia l’implicita ammissione di aver sottovalutato il pericolo?
C’è un po’ di entrambi, crediamo, così come l’impressione di una certa, imperdonabile sufficienza da parte dei piloti, i diretti interessati, quelli che più di tutti dovrebbero insistere per l’incremento della (propria) sicurezza e che invece, spesso e volentieri, si dimostrano distratti e disuniti tra loro su un tema che dovrebbe cementarli al di là delle rivalità di pista. L’assenza di due senatori come Rossi (“avevo altro da fare”) e Lorenzo alla riunione del venerdì sera è lì a dimostrarlo.
“Il miglioramento continuo è meglio della perfezione in ritardo”, scriveva Mark Twain...