E adesso? Che ne sarà della MotoGP?
Valencia, terzo atto di un piano scritto già da Phillip Island, non segna solo l’epilogo della stagione 2015. Chiude un’era. Creando un precedente che minerà giocoforza la credibilità della competizione negli anni a venire, almeno fin quando Lorenzo e Marquez correranno. L’uno contro l’altro. O forse no.
Chi può dirlo? Chi potrà scommettere, in ogni senso, sulla trasparenza del gioco? Quale episodio di gara che riguardi la lotta di testa non alimenterà sospetti e dietrologie? Il 2016 tornerà una battaglia aperta o, se si ripresentassero certe condizioni con Rossi nei panni di terzo incomodo, scatterà il secondo atto del ‘biscotto’, magari a parti invertite? Interrogativi che aprono ad altri e altri ancora, in una catena potenzialmente infinita.
In primis sulla latitanza della governance e su una battaglia che dalla pista crediamo si sia trasferita, al riparo dai media, sul piano politico e commerciale. Ambiti in cui Rossi ha saputo puntellare le sue imprese divenendo Deus ex machina dell’intero movimento, per via di un talento agonistico e manageriale unico al mondo. Guadagnandosi con merito (leggasi sgomitando in pista) una posizione privilegiata nell’ecosistema ‘motomondiale’, che da solo ha innalzato a nuove vette con ricadute positive, economiche e di immagine, a cascata per sé e gli altri.
Una presenza che si è fatta via via più ingombrante a fronte di un business sempre maggiore. E di un ‘partito’ spagnolo dalle fila ingrossate - tra piloti, sponsor, organizzatori e autorità (poco) vigilanti -, che ha fiutato il pretesto, fosse anche una banale questione personale tra Marquez e Rossi, per organizzare la spallata alla cupola ‘gialla’ e impadronirsi una volta per tutte del giocattolo. Usurpando al pesarese a fine carriera (e probabilmente all’ultima chance utile per l'iride) non la leadership agonistica quanto quella nei profitti. Come? Prendendolo in mezzo con due piloti capaci e motivati a farlo, e iniziando a isolarlo a livello sportivo e politico con un anno di anticipo sul suo pensionamento. In un gioco di potere che, come spesso avviene proprio nella Realpolitik, si consuma in strategie occulte che hanno preso corpo in pista sottoforma di incubo, con esiti tristemente noti.
Come giudicare, altrimenti, la difesa a oltranza di Honda verso il proprio pilota che corre, di fatto, a favore della factory rivale (cosa mai vista prima)? O l'immobilismo pilatesco, sempre ad oltranza, di Dorna e Fim? O le parole di Lorenzo che, senza troppe remore, parla di mondiale ‘spagnolo’ giustificando l’arrendevolezza di Marquez e Pedrosa con la ragion di stato? Forse sapendo di essere, lui e gli altri, in una botte di ferro e di potersi permettere di fare e dire tutto, senza ritegno né rispetto per il pubblico e gli addetti ai lavori?
Il tutto in presenza di un conflitto di interessi che d’ora in avanti non potrà non rinfocolare la cultura del sospetto. Come in molti altri sport caduti sotto il peso di scandali e combine, più o meno esplicite, a cui il motociclismo era finora rimasto estraneo, una mosca bianca a buon diritto fiera del proprio candore.
Rossi, che fesso lo han fatto suo malgrado, ha capito con un anno di anticipo di essere il “dead man walking” del paddock e il suo “vieni nel motorhome che ti devo parlare” rivolto a 'Don' Ezpeleta (non a caso l'Ecclestone delle due ruote) nel dopogara di Valencia suona come il tentativo estremo di tutelare il proprio futuro, a breve e medio termine, sportivo e non. Minacciando ritorsioni commerciali, ad esempio, per difendere posto e prerogative in Yamaha in ottica 2016, sperando di giocarsela alla pari ora che la convivenza con Lorenzo si è fatta improbabile, ma con lo spagnolo di nuovo in una posizione di forza e nessun’altra alternativa a portata. A meno che un colpo di fantamercato non porti allo scambio Lorenzo-Pedrosa, ipotesi quantomai inverosimile.
“O muori da eroe o vivi tanto a lungo da diventare il cattivo” sentenzia Christian Bale-Batman sul proprio crepuscolo di supereroe. A Rossi sembra siano riuscite entrambe le cose: è (sportivamente) morto da eroe delle piste – perché difficilmente ripeterà una simile stagione, ma sarei felice di ricredermi - ed è vissuto tanto a lungo da diventare il cattivo, non in senso assoluto ovviamente ma agli occhi di quegli antieroi che gli si sono coalizzati contro, ben coordinati tra loro, per spodestarlo e costruire la propria personale piramide. Anche se il colpo di mano, per i modi plateali in cui è maturato (grazie anche alla rivelazione di Rossi), potrebbe rivoltarsi loro contro.
I veri sconfitti siamo noi, pubblico di sportivi e appassionati, privati di un duello ad armi pari che avrebbe scritto la storia, in un senso o nell’altro, a coronamento di una stagione indimenticabile. Invece non sapremo mai chi l’avrebbe spuntata senza la ‘variabile Marquez’. Non sapremo mai chi fosse il migliore dei due. Sappiamo per certo chi è e resterà il peggiore dei tre, e di tutti gli altri. Sappiamo che il verdetto autentico della pista si è fermato a Motegi, a tre gare dal termine: quando Lorenzo era in vantaggio per 6 vittorie a 4, e Valentino 283 punti a 265.
Sappiamo infine, dalla cascata di immagini ed emozioni di una (comunque) indimenticabile domenica novembrina, che il campione degli almanacchi 2015 sarà Jorge Lorenzo. Mentre a Valentino Rossi, nel giorno della sconfitta più amara, è riuscito il miracolo più bello: vincere comunque, eletto da buona parte di mondo, dalla folla e dal paddock di Valencia come emblema immacolato di un motociclismo senza sconti ma dal volto pulito, che trasuda passione sincera e voglia di vincere senza aiutini né inciuci. Quello che continueremo a cercare sugli schermi e sulle piste di tutto il mondo. Nonostante tutto.