Sfinito e sfibrato ancor prima di mettere piede sul terreno di gioco. Leo Messi è annegato nel mare delle speranze di 40 milioni di argentini, naufragate come un lento logorio, come una via crucis. Le due istantanee che raccolgono la gelida serata russa sono distanziate di novanta minuti ma lo schema metrico è sempre quello: le mani sul volto sperando che quello sia solo un incubo, sperando che il Mondiale non sia ancora iniziato. Potrebbe essere già finito quello dell’Argentina e di Leo Messi, inghiottito da una solitudine che lo ha accompagnato sin dalle qualificazioni, schiacciato dalle follie del suo allenatore e dall'incapacità di poter cambiare il corso del destino.
Questa volta non è stato possibile, l’uno contro tutti non ha permesso al numero 10 di portare via la sua Argentina dal baratro, come nella notte di Quito. Non c’erano margini per poter creare la stessa magia, non c’erano margini per essere costantemente presenti in un contesto in cui l’Argentina ha fatto da comparsa lasciandosi schiacciare dalla Croazia. Se la prima partita di Messi aveva avuto i connotati di uno shock, questa è stata una lenta passione che ha consumato il numero 10 fino a farlo scomparire. Ingabbiato dalla Croazia per tutto il match e isolato dai compagni di squadra, il fuoriclasse del Barcellona non è mai riuscito ad incidere offrendo una prestazione pallida, come il suo volto durante gli inni Nazionali, tesissimo.
Lo sguardo vitreo, nell'ombra e una responsabilità troppo grande da sobbarcarsi da solo perché, in questo sport, nessuno può vincere in splendida solitudine. I fuoriclasse possono risolvere le partite ma i trofei li vincono le squadre, i loro atteggiamenti ed il loro modo di costruirsi un’identità che possa essere riconosciuta anche a chilometri di distanza. L’Argentina vista negli ultimi anni non ha nulla che possa essere riconducibile ad una squadra, una discrepanza di vedute ed una struttura tattica impensabile in almeno 73 paesi del Mondo. Il confine con l’inferno non è mai stato cosi vicino per Messi che, tra quattro giorni, potrebbe fare le valigie e salutare la Russia, ricordarla con una tremenda e spiacevole parentesi di una carriera leggendaria.
Adesso c’è da fare i conti col mondo circostante, quello che inghiotte ricordando soltanto gli ultimi sette giorni. Saranno lacrime amare, forse già versate, di quel piccolo uomo con la barba. Predicatore nel deserto confusionario, equilibratore di un luna-park abbandonato, lasciato alla mercé del mondo. Resta solo Leo Messi, colpevole di essere schiavo della solitudine.