A otto giorni dallo 0-0 di San Siro contro la Svezia, la mancata qualificazione della nazionale italiana di calcio ai prossimi Mondiali di Russia 2018 fa forse ancor più male. E non solo per la crescente consapevolezza di non esser presenti su un palcoscenico che, per storia e tradizione, gli azzurri hanno praticamente sempre calcato da protagonisti, ma anche e soprattutto per le polemiche e le discussioni che sono seguite al fallimento nello spareggio contro i vichinghi scandinavi.
Ha iniziato il commissario tecnico, Gian Piero Ventura, subito dopo la partita di Milano, a far intendere agli appassionati italiani cosa sarebbe accaduto nella gestione del disastro, o della catastrofe, per usare le parole del presidente federale Carlo Tavecchio. Due ore per presentarsi in conferenza stampa, chiedere scusa su richiesta (scuse peraltro non necessarie), annunciare che non si sarebbe dimesso e provare a resistere per ottenere una buonuscita o comunque un accordo economico. Il tutto seguito da interviste a spizzichi e bocconi rilasciate a giornalisti d'assalto, tra sfondoni e dichiarazioni inquietanti ("la miglior Italia degli ultimi quarant'anni prima del 3-0 contro la Spagna"). Non adeguato al ruolo ricoperto, incapace di gestire pressioni e tensioni da grande evento, Ventura è passato alla storia dalla parte sbagliata, senza riuscire nemmeno a uscirne in maniera dignitosa, come si sarebbe convenuto dopo una simile disfatta. E non tanto per le dimissioni mai rassegnate, ma per le mancate spiegazioni su cosa non abbia funzionato contro una buona ,ma non certo imbattibile nazionale come la Svezia. Cosa è successo negli ultimi mesi in casa Italia? Perché la sensazione diffusa è che alcuni senatori abbiano preso (o dovuto prendere) il controllo dello spogliatoio? Quale il senso di giocare ancora a tre dietro e con una sequenza interminabile di cross, preda dei prestanti difensori avversari? Domande a cui non si otterrà risposta, almeno per un po', fino a quando, l'ex c.t., alla fine esonerato dallo stesso Tavecchio, non deciderà di dire la "sua". Tra qualche mese però, perché fino alla prossima estate Ventura rimarrà a libro paga della Federazione.
Una Federazione che ha mollato (quasi) di colpo Carlo Tavecchio, costringendolo alle dimissioni, solo quando è stato chiaro che il Consiglio lo avrebbe sfiduciato. L'esperienza di Tavecchio alla guida della FIGC è stata grottesca, più per la forma che per la sostanza. Il fallimento mondiale ha giocato ovviamente un ruolo fondamentale nella caduta del presidente, che però si era già distinto nel suo triennio per battute poco felici (eufemismo) e per aver fornito - esattamente come Ventura - l'impressione di essere l'uomo sbagliato al posto sbagliato. Neanche Tavecchio ha resistito alla tentazione di uscire di scena trascinando altri nel suo baratro. Ci ha provato tirando in ballo Marcello Lippi, accusato di avergli consigliato Ventura allenatore, addebitando invece a se stesso l'unica responsabilità di "non aver cambiato commissario tecnico nell'intervallo della gara di San Siro". Una toppa peggiore del buco, perchè se cambio andava fatto, il momento non era certo quello, ma doveva risalire ad almeno un paio di mesi prima. Si è consumato così il fallimento tutto azzurro nella corsa al Mondiale 2018, in un teatrino da politica sportiva, con i vari Malagò (presidente del Coni) e soci spesso ambigui nel prendere posizione. Non ha aiutato neanche l'atteggiamento di parte della stampa, prontissima a chiedere il "via tutti" caratteristico di ogni sconfitta calcistica, molto meno lesta nell'analizzare i motivi delle difficoltà del movimento azzurro (mai dimenticare le esclusioni nella fase a gironi degli ultimi due Mondiali, in particolare nel 2010 contro Nuova Zelanda, Slovacchia e Paraguay).
Ora fioccano nomi di grande spessore, da Arrigo Sacchi a Paolo Maldini, passando per Carlo Ancelotti: soluzioni legittime e più che rispettabili, ma da sole non sufficienti a ribaltare le sorti di un sistema sempre più in declino, che dovrebbe ripartire dalle giovanili più che dal vertice della piramide, facendo maggiore attenzione alla formazione di giocatori di talento piuttosto che alla cultura del risultato ad ogni costo.