In undici giorni la stagione del Barcellona ha cambiato volto o, per meglio dire, si è capovolta. Da un possibile triplete con annessa umiliazione dei rivali del Real Madrid, si è passati a un'allarmante sconfitta nel Clasico, preludio del tonfo europeo contro l'Atletico. In mezzo l'inquietante esibizione dell'Anoeta di San Sebastiàn. Se è vero che la Champions League è manifestazione di dettagli - come una volta spiegato da Josè Mourinho a giustificazione di qualche eliminazione di troppo - i blaugrana hanno avuto il torto di arrivare con le gomme sgonfie allo snodo chiave della loro temporada, ricadendo in errori e orrori del passato, emersi in maniera plastica nel quarto di ritorno in riva al Manzanarre.
Ha vinto l'Atletico di Simeone, e lo ha fatto con merito, non certo per aver esibito un calcio brillante o innovativo, ma per aver attuato senza svarioni un piano partita tanto banale quanto efficace. E i blaugrana sono caduti nella trappola del Calderòn, in mezzo a un ambiente che non aspettava altro di poter avere una palla sporca (rinvio sbagliato di Jordi Alba), ripulita da Saùl e lucidata da Griezmann, per passare in vantaggio. Il resto sono stati una cinquantina di minuti di catenaccio purissimo, che con neologismi discutibili viene oggi definito come organizzazione difensiva, con in più la retorica del cuore e del carattere. Vero è invece che il Barça ha perso completamente il filo del discorso, non da ieri e non solo per colpa del piano partita di Simeone, vero capopopolo dei colchoneros. Già a San Sebastiàn contro la Real Sociedad, l'allenatore avversario - Eusebio Sacristàn - aveva sperimentato con successo la tattica della chiusura a oltranza, e d'altronde lo stesso Atletico sarebbe probabilmente uscito indenne dal Camp Nou nella gara d'andata se non ci fosse stata l'espulsione di Fernando Torres. Nessuna novità dunque, perchè contro i blaugrana è abitudine consolidata difendersi nella propria area di rigore. La differenza l'ha fatta invece la lentezza della manovra dei catalani, quasi mai in grado di stanare il rivale con blitz improvvisi nel cuore del fortino, ma piuttosto in netto calo con i loro uomini più attesi, Leo Messi su tutti (ma anche Neymar, Rakitic e Dani Alves).
Che quello del Barcellona possa essere anche un problema di profondita della rosa, Luis Enrique è il primo a saperlo, al punto che il tecnico ex Roma e Celta Vigo aveva più volte espresso la necessità di operare sul mercato di gennaio (Nolito il pomo della discordia, con Aleix Vidal e Arda Turan non ritenuti sufficienti per rinforzare le seconde linee). Eppure non è un caso che i blaugrana non abbiano mai vinto per due volte di fila la Champions League, e che non siano nemmeno arrivati in finale un anno dopo l'altro. Il loro è un meccanismo particolare, un'orchestra armoniosa e perfetta quando gli ingranaggi sono ben oliati, una banda che rischia di steccare quando un granello di sabbia ne altera il funzionamento. Come già accaduto nel 2014 (eliminazione simile, per non dire uguale, con il Tata Martino in panchina), nel 2013 (bruciante k.o. contro il Bayern Monaco) e nel 2012 (contro il Chelsea), il Barça si è arreso di fronte ad avversari più freschi fisicamente e forse meno stanchi mentalmente. La storia si ripete dunque, anche per l'Atletico Madrid, che a due anni di distanza ha la possibilità di vendicare la beffa di Lisbona. Nuovamente in semifinale, Simeone è ora pronto a sfidare i cugini del Real (che lo eviterebbero volentieri), ma anche Bayern e Manchester City, per arrivare a Milano e giocarsi la coppa in una partita secca. Il suo Atletico non ruberà mai l'occhio agli esteti - per usare un eufemismo - ma non partirà battuto con nessuno, squadra unica nell'esaltare le proprie qualità e mettere a nudo i difetti degli avversari.