Gli inaspettati umani, lontani anni luce da quei marziani che negli anni ’50 dominarono la scena calcistica europea sfiorando la vittoria di un mondiale, lontani anni luce dalla Nazionale che solo l’Italia batté in finale nel 1938, che dominò la scena calcistica, senza mai vincere nulla, rimanendo incompiuta.

Se pensiamo al calcio della prima metà del secolo scorso (circa), è impossibile non pensare all’Ungheria, alla cultura calcistica magiara. L’involuzione vissuta negli anni dalla Nazionale (e anche dal campionato) è stata a tratti impensabile, nessuno sembrava in grado di risollevare una squadra che mancava a una grande manifestazione dal Mondiale del 1986, finchè ci hanno pensato Platini, ampliando l’Europeo a 24 squadre, la Grecia, auto-eliminata dal gironcino di qualificazione, e gli umani, tornati speciali per un attimo.

Perché è vero che le stelle si sono allineate per permettere questo miracolo, ma i meriti alla squadra del tecnico tedesco Storck non vanno tolti, quest’ultimo subentrato a un’icona del calcio ungherese come Pal Dardai, che in estate si è seduto sulla panchina della squadra del suo cuore, nella quale ha militato dal 1996 al 2011, ovvero l’Hertha Berlino.

Storck ha preso in mano una nazionale descrivibile con un termine che già abbiamo usato: “umana”. Una squadra di medio livello, forse anche basso, ma tremendamente organizzata e con lo spirito giusto per arrivare all’obiettivo, guidata da due leader in particolare, per mentalità e per talento.

Chi ha seguito il campionato tedesco e inglese nello scorso decennio ha ben presente Gabor Kiraly, portiere che ha condotto una carriera tra alti e bassi, oscillando tra il ruolo da titolare e di riserva. Ne ha girate tante di squadre, nei suoi 22 anni di carriera: Haladas (suo club attuale e nel quale è cresciuto), Hertha Berlino, Crystal Palace, West Ham, Aston Villa, Burnley, Bayer Leverkusen, Monaco 1860, Fulham. Ma come, 22 anni? E a quanti anni ha iniziato da professionista? 17. E in Francia, tra qualche mese, saranno 40. Quaranta.

Kiraly è sempre stato un buon portiere, ha girato squadre di medio livello se escludiamo la parentesi al Leverkusen. Ha portato a casa qualche trofeo con l’Hertha, due coppe di lega, ma non è celebre per questo o per le sue gesta, anche se un paio di parate nel playoff con la Norvegia sono state davvero pazzesche. È celebre perché in campo scende con i classici guantoni, i classici scarpini, la maglia a manica lunga, ma soprattutto un paio di pantaloni di tuta larghi e fino alla caviglia. Particolare, diciamo. Alternativo.

Una mera questione di comodità, diventata abitudine negli anni e ormai marchio di fabbrica. “Vado in Francia a 40 anni col pigiama”, ha detto lui. Record-man per presenze in nazionale alla pari con Bozsik a quota 101, titolare inamovibile, alla faccia di Adam Bogdan, ottimo portiere del Liverpool, di Gulacsi e di Dibusz, altri due che sanno il fatto loro. Ma chi lo toglie il vecchio Gabor? Personaggio raro, da non fare mai arrabbiare, altrimenti vi prende per i capelli, come accadde con Kagelmacher lo scorso anno…

Quello che gli manca è una fascia da capitano al braccio, perché quella la porta il calciatore Ungherese probabilmente più forte e talentuoso degli ultimi 30 anni, e forse anche di più. Balazs Dzsudzsak, una carriera complicata quanto il suo cognome per certi versi. Classe 1986, cresciuto nel Debrecen con il quale ha anche esordito in Champions League, per poi accasarsi al PSV Eindhoven. Fascia destra o fascia sinistra, indifferentemente. Il risultato è sempre lo stesso: gol e assist a raffica, con quei piedi incredibili.

La scelta discutibile la fa nell’estate 2011, lasciando l’Olanda per accasarsi all’Anzhi, e dopo poche partite, nel gennaio 2012, scegliere la Dinamo Mosca. E poi il Bursaspor in estate. Scelte discutibili perché uno con il suo talento avrebbe potuto intraprendere una carriera decisamente migliore di quanto ha poi realmente fatto nel corso degli anni, al PSV era semplicemente devastante da ala. Ma non era destino, evidentemente.

È rimasto incompiuto con i club (tre campionati ungheresi, un campionato olandese e una supercoppa d’Olanda), ha fatto il suo in Nazionale, senza mai realmente esplodere. Era senza dubbio uno da top club europeo, fino al 2011. Un po’ sparito dai radar ultimamente, prima del passaggio in Turchia quest’estate, come detto. Un classe 1986 potrebbe però ancora rilanciarsi, magari disputando un buon Europeo, assolutamente nelle sue corde. Il leader in campo, quello che si sacrifica, magari non ha più il guizzo per risolverle le partite, ma è evidente l’abnegazione. Anima e corpo di questa Nazionale ungherese. Un quasi alieno mancato, a tratti.

Oltre ai due leader, in mezzo a tanti giocatori di medio livello, spuntano anche i nomi della linea verde Ungherese. Due in particolare, centrocampisti: Adam Nagy e Laszlo Kleinheisler. Storie diverse, giocatori diversi, ma entrambi con un futuro probabilmente comune, nell’élite del calcio. Uno mediano, l’altro trequartista, uno classe 1995 e l’altro con un anno in più.

Questo tipo di giocatori non hanno grandissime chances di mettersi in mostra, se non appunto quelle con la maglia della Nazionale. E dire che hanno sfruttato le opportunità potrebbe essere riduttivo. Nagy è un mediano dotato di buona tecnica di base, capace di giocare sia a due che a tre, sia in posizione più difensiva che da interno. Uno che può stare ovunque, ha temperamento, corsa, e margini di miglioramento visibili anche a occhio nudo.

Diverso il caso di Kleinheisler, uno che sa spaccare in due le partite, agendo sulla trequarti in qualunque posizione, o da ala o centralmente. Una carriera passata a saltellare tra il Videoton e la Puskas Academy, con vista sul futuro. Scadenza giugno 2016, si è già messo l’Arsenal sulle sue tracce, con la speranza di farne un nuovo Dzsudzsak.

Certo, ripensare a questi nomi oggi, Kiraly, Gera, Dzsudzsak, Nagy, Kleinheisler, pare davvero surreale, soprattutto se paragonati ai vari Kocsis, Puskas, Hidekguti e compagnia. Quella squadra era composta da una serie di giocatori di un’altra categoria, rimasti incompiuti con la Nazionale (e alcuni anche con i club). A confronto, questa sembra una squadra di scappati di casa. Un paragone che certo non regge, ma in Ungheria sanno quanto pesi la maglia della selezione, quanto sia difficile portarla.

Il fantasma del 1954 è probabilmente più vivo che mai, anche oggi, nella testa e nelle gambe di tutti i magiari. Chissà, probabilmente se la squadra di Sebes avesse portato a casa la coppa del mondo la storia sarebbe stata diversa, non ci sarebbe stato un declino così profondo, non si parlerebbe degli anni bui del calcio ungherese negli anni recenti, di una incapacità di rialzarsi quasi paradossale pensando che l’Ungheria è stata una delle nazioni più importanti quando si parla di storia del calcio in Europa.

Non diciamo che il campionato sia tornato a livelli decenti, sarebbe una bugia. Non diciamo nemmeno che la Nazionale possa fare miracoli in Francia, perché probabilmente è una delle peggiori nel lotto, arrivare già oltre la prima fase a gironi sarebbe un obiettivo a dir poco prestigioso. E anche un punto di partenza, per ricostruire. Le macerie forse sono state definitivamente spazzate via, sono rimaste le fondamenta, l’orgoglio magiaro. Ora è tempo di costruire.