Ho sempre creduto che ci sia qualcosa, da qualche parte, che fa sì che gli eventi seguano una strada in un certo senso già scritta. Un qualcosa che decide che certe cose devono andare in un determinato modo. Ieri sera ne ho avuto una conferma ulteriore, quando ho visto un Italiano portato in trionfo da un popolo intero, che non è quello Italiano.

18 novembre 2014. Una data per certi versi insignificante, ma da cui questa storia passa per forza, anche se cominciata ben prima. Stadio di Genova. Sono passati quattro anni da quando Ivan Bogdanov ha scatenato il panico al Luigi Ferraris, bruciando bandiere e instaurando il terrore nei presenti, il 12 ottobre 2010. Esattamente cinque anni fa. Quel 18 novembre sempre nello stesso stadio si è giocata una storica amichevole, quella tra la nazionale Italiana di calcio e quella Albanese. Termina 1-0, segna Okaka, ma non importa a nessuno. Quel che si ricorda è il clima di festa e di amicizia che si respira. Lo stadio è per metà azzurro e per metà rosso.

Italia e Albania non sono sempre state in così buoni rapporti dal punto di vista politico, basti pensare all’occupazione durante il regime fascista, terminata nel 1943, o quella precedente nel secondo decennio del secolo scorso. Negli anni a seguire le acque si calmeranno, tanti albanesi cominceranno a emigrare verso lo stivale a partire dal 1991, dopo il crollo del muro. Il cambiamento per loro è difficile, quasi tutti sono senza permesso di soggiorno, arrivano su dei barconi, a Brindisi ne sbarcano 27000 e purtroppo non tutti arrivano a destinazione. Ma l’integrazione è altrettanto forte. Il 2 dicembre 2008 è stato redatto un accordo bilaterale tra i due governi in tema di lavoro, oggi si parla di circa 500mila albanesi in Italia, tra chi ha doppio passaporto, lo è di seconda generazione o chi è cittadino con permesso di soggiorno.

E quella sera tutti loro 500mila si sono probabilmente sentiti ancora più fieri di esserlo e di vivere in Italia. Ma forse l’intero popolo non si è mai sentito legato al tricolore come in questi giorni. Perché il calcio è fenomenale, ogni tanto regala dolori, ogni tanto emozioni fortissime a un popolo intero. E l’Albania è devota (sì, devota) a Gianni De Biasi, un quasi 60enne nativo della provincia di Treviso con una carriera da allenatore che dura da oltre 20 anni tra gavetta, serie minori e qualche gioia anche in Serie A.

Ma mai prima di oggi era riuscito in un’impresa del genere. La nazionale di calcio Albanese che conquista la prima storica qualificazione a una grande manifestazione, l’Europeo di Francia 2016.

Probabilmente chi ha seguito poco queste qualificazioni o chi non conosce il calcio si chiederà cosa ci sia di strano, in effetti è capitato che alcune nazionali spesso rimaste nell’ombra siano emerse negli ultimi anni. Stavolta no, stavolta è diverso. Perché la nazionale Albanese è composta per lo più da giocatori (lo dico senza giri di parole) di livello medio-basso, di giocatori che militano nelle serie minori o nei campionati minori, salvo alcune eccezioni ovviamente. Ma in generale, non dei campioni certamente.

È un miracolo perché è riuscita a mettersi alle spalle nazionali come la Danimarca di Eriksen e Hojbjerg, di Agger e Bendtner, l’Armenia di Mkhitarian, Ozbiliz e Movsisyan, ma soprattutto la Serbia di Ivanovic, Matic, Mitrovic, Ljajic, Tadic, Kolarov e tanti altri.

Quella Serbia nemica del popolo albanese dall’inizio degli anni ’90, ma anche in precedenza. Mai stati amici, fino ai fattacci del Kosovo. Della rivalità ve ne avevamo parlato esattamente un anno fa, dopo i fattacci dello stadio Partizan. Un caso? Un altro?

Riflettiamoci: l’Albania guidata da un Italiano in panchina che si qualifica per la prima volta all’Europeo (e non ha mai disputato un mondiale) chiudendo davanti alla Serbia. Se non è destino questo, allora possiamo ufficialmente dire che il destino non esiste. Poi ognuno è libero di crederci o meno, ci mancherebbe.

Tirana era una città blindata solo pochi giorni fa, quando proprio la Serbia arrivava a Elbasan, città a 40 km dalla capitale, per disputare il match che poi avrebbe vinto 2-0. Unica gioia del girone. Oggi è una città in festa, è una città che esplode di gioia. È una città che invoca il nome di Lorik Cana, il gran capitano, recordman di presenze, in lacrime al termine della partita vinta in Armenia ieri sera. È una città che invoca il nome di Bekim Balaj, match-winner in quell’1-0 in Portogallo che ha cambiato le sorti delle squadra. È una città che invoca il nome di Hysaj e Gashi, i due elementi di spicco della rosa insieme a Berisha. È una città che invoca il nome dello svincolato Ajeti, del terzino del Qarabag Agolli, del centrocampista del Pescara Memushaj, di Roshi, di Cikalleshi, di Lenjani, di Basha, di Djimisti e di tutti gli altri semi-sconosciuti ai più.

Ma soprattutto, sopra a tutti, c’è un nome. Il nome. Xhani De Biazi, lo hanno rinominato. Gli hanno dato una laurea ad honorem. Gli hanno dato la cittadinanza onoraria per meriti sportivi. “Ho un popolo alle spalle”, ha detto a qualificazione acquisita. “Quelli che non credevano in noi, devono ricredersi”. “Chi ci rideva alle spalle, adesso fa festa con noi”. Gianni de Biasi ha compiuto il miracolo Albania.