Andres Iniesta, Carlo Ancelotti, Pep Guardiola, Massimiliano Allegri, i magnifici quattro pronti a giocarsi la Champions. Sì, c'è l'intruso, non è un'allucinazione. Nel sintetizzare la doppia tornata di Coppa, chiamata a emettere verdetti definitivi sulle qualificate alle prossime semifinali, impossibile non partire dai meriti di chi siede in panchina. Nella lista appena fornita manca Luis Enrique, ma l'opera dello spagnolo è evidente, il Barcellona ha un'impronta nuova, forgiata sul passato, ma modellata con un refolo di sostanza che spegne i limiti di un tiqui taca troppo conosciuto ormai per non essere limitato. Il Barcellona è ancora possesso palla, ma non è più solo quello, su quello fonda un apparato di gioco capace di cambiare il ritmo della partita, di sfruttare il momento, con fulminee accelerazioni o chiamate per le punte. Il merito è di Luis Enrique, ma la luce accesa al Camp Nou dall'Illusionista Iniesta nel martedì di Champions merita la ribalta. Don Andres è a buon diritto un allenatore, insegna calcio da tempo, nel centro del campo. Anche a livello visivo, è più un insegnante di un calciatore. Non ha l'immagine del prototipo moderno, vive l'arte del calcio come qualcosa di magico, trotterella, difficilmente scatta, gioca semplice, accarezza la palla, ha il volto quasi "bianco", pochi capelli, è spesso silente, mai sopra le righe. Il calcio è nei suoi piedi, la veronica con cui avvia l'azione del gol firmato Neymar è meraviglia, poi un movimento di corpo ad eludere Cavani, un leggero spostamento a evitare Verratti e sulla trequarti d'attacco un passaggio morbido, calibrato, per innescare l'illustre connazionale, lui sì icona di questo calcio. Giovane, strapagato, ingellato, divo dei social, inseguito fuori dal campo, tutto quello che Iniesta non è e probabilmente non vuole essere. Iniesta è il calcio romantico, fatto di tocchi più che di fisico, quello in realtà è normale, normalissimo, è esecuzione, visione, immaginazione, più che potenza, forza. Ecco, se volete imparare a giocare a calcio, il Professore delle Illusioni è quanto di meglio possa esistere.
Chiuso il capitolo Iniesta, passiamo a chi siede realmente in panchina. Ancelotti, a Madrid, è in costante pericolo, perché Florentino non ama Carletto e attende il fallimento per cacciare l'attuale tecnico. La risposta di Ancelotti parte sempre dal campo, dalla Decima ai quarti con l'Atletico. Il Real, messo sull'orlo del baratro da infortuni in serie, è ancora lì e il merito è di Carletto, che per una sera ammaina il fioretto e sguaina la spada, lanciando insieme Varane, Pepe e S.Ramos e ripescando dalla panchina il Chicharito, l'uomo della Provvidenza. Il Real si schiera con il 4-4-2, Isco e James esterni con licenza d'accentrarsi per liberare le corsie. Lo 0-0 dell'andata non spaventa, il Real prende la partita e la tira a sè, di personalità. Sbatte su Oblak, riceve il mini-regalo di Brych, rosso a Arda, e chiude i conti prima dei temuti supplementari. Le divinità calcistiche scelgono Ancelotti, l'esteta sceso a patti con la sorte, e respingono Simeone, il Real merita e passa, Florentino deve attendere, non è facile rinunciare a un vincente.
Con Ancelotti, Allegri. Personalità diverse, più cordiale il primo, più fumantino il secondo. I meriti di Allegri vanno oltre la gara di ritorno col Monaco. Oggettivamente brutta Juve, senza Pogba, con poco Tevez, con le paure del passato a inondare il terreno del Louis II. La Juve annaspa, ma è tra le quattro d'Europa. La Champions è fatta di episodi, non sempre festeggia chi merita o chi sulla carta parte coi favori del pronostico, tutto sta a raccogliere quel che ti si pone davanti e la Juve, pur in difficoltà, alza il fortino e chiude la porta. A volte conta il risultato, spesso se si parla di Champions, la prestazione è un di più, un qualcosa che abbellisce ma che non porta contante e prestigio. Missione compiuta, Allegri porta la Juve oltre Conte - i meriti del Ct azzurro sono enormi, occorre non dimenticarlo - partendo da Conte. Dalla difesa a tre a quella a quattro, un undici camaleontico, rabbioso, tecnico. Alla mentalità impressa da Conte, Allegri aggiunge un input di gioco ulteriore. Dalle critiche agli applausi, dall'estate alla primavera, la Juve in corsa su tre fronti esalta Max e dimentica Antonio, soprattutto in Champions.
Infine Guardiola, il filosofo, parafrasando Ibra. Il Bayern è vivo e per la Coppa si passa comunque dalla Germania, perché la prova di ritorno col Porto assomiglia sinistramente a quella devastante offerta con lo Shakhtar. Sei gol, partita chiusa dopo venti minuti, un mix di carattere e talento, senza i migliori. Già perché il Bayern del ritorno è per effettivi la copia di quello dell'andata, senza il disastroso Dante. Mancano Ribery e Robben, Schweinsteiger e Benatia, ma Guardiola è allenatore vero e in una settimana stravolge testa e gambe dei suoi. Il Porto aiuta il Bayern, perché costruito per giocare, sceglie di non giocare. L'aggressività ai limiti della ferocia palesata al do Dragao, diventa resa in Baviera, manna per gli assatanati di Pep. Poco Porto, tanto Bayern, in attesa di qualche rientro. Guardiola, in piedi, osserva e indica, movimenti e piccole correzioni. Cade la speranza di molti, il Bayern è ancora lì.
Iniesta, Guardiola, Ancelotti, la Juve è al tavolo dei migliori, non resta che attendere.