Orgogliosi, arroganti, presuntuosi e superbi ma talenti cristallini. Ne abbiamo sentiti tanti di bad boys (attualmente basta citare Balotelli o potremmo rifarci a Ibra) e di tanti allenatori che provano, o almeno hanno provato, a portarli sulla retta via (Mancini e Allegri con Balo).

La vita è fatta di storie da raccontare. E quella di Memphis Depay va raccontata. 20 anni circa, nato a Moordrecht, Olanda del Sud. Questa è una storia di tenacia, di abbandoni, di rivincite e in mezzo c'è anche il destino. E' il 1998, Memphis (lo chiameremo spesso così, poi vi sveleremo il perchè) ha quattro anni, vede la porta di casa chiudersi – cosa alquanto normale - ma qualcuno di importante è andato via per non tornare, lasciando una stanza vuota. Non ha lasciato solo quel vuoto fisico, in realtà. E' suo padre, originario del Ghana, che ha chiesto il divorzio da sua madre (una donna olandese pura) e sta andando via di casa. Non si rivedranno più. La madre non può occuparsi molto di lui, possiamo dire che è cresciuto quasi senza una famiglia come punto di riferimento, ma di lui se ne sono sempre occupati i nonni. Materni, ovviamente. I parenti paterni non si sono mai fatti sentire. Ma abbiamo detto che questa è una storia di tenacia e di rivincite.

Memphis comincia a giocare non passione ma per se stesso. Ha voglia di dimostrare, ha voglia di sfogare tutta la rabbia che si porta dentro. Entra nella squadra locale per poi emigrare a Rotterdam, allo Sparta. Si alternano due allenatori, sulla panchina: Mike Snoei, ex difensore del Vitesse e dello stesso Sparta Rotterdam, fedele alla filosofia del calcio olandese che valorizza i propri giovani; e Wiljan Vloet, breve carriera da centrocampista, uno con un caratterino niente male. Nessuno dei due ha trovato il modo di gestire il ragazzo fuori dal campo. Perchè sul campo non c'era niente da fare, Depay era forte. In una storia come questa, in cui c'è il pathos e il fato, ci dev'essere per forza un allenatore. E due frasi. “O aspettiamo che scoppi una rissa o di qui questo deve andarsene” - la prima frase -. Ovviamente si optò per la cosa socialmente più utile: mandarlo via. Siamo nel 2006 ed ogni tifoso del PSV Eindhoven ricorda questi anni (2005-2006-2007) con mesta nostalgia. Gli anni dello storico PSV, dei quarti di Champions League conquistati e poi persi, dei due scudetti consecutivi, del dominio olandese interrotto solo dall'AZ, gli anni in cui se aveste chiesto a qualcuno “chi è il miglior giocatore al mondo?” vi avrebbe risposto “Jefferson Farfan” (capocannoniere per due edizioni di Eredivisie consecutive) in quella lingua ibrida fra francese, tedesco e inglese mescolati che è l'olandese. (Ah, e gli anni di Luis Suarez all'Ajax...). In mezzo a festeggiamenti e progetti, un signore, Phillip Cocu, vice di Hiddink (e poi Koeman) nota questo ragazzo con i capelli corti corti, scuro in volto e anche di pelle. “Prendiamolo al PSV” - la seconda frase -. Era il 2006.

Gioca per cinque anni nelle giovanili del PSV ma Memphis vuole rispetto. Ha un fisico importante (1.78 di altezza), ricopre il ruolo di ala sinistra, rapido. E lui vuole che l'allenatore lo veda quando parte dalla fascia e, col suo dribbling secco, ne fa fuori uno o due, per poi accentrarsi e tirare come meglio gli piace, perchè no, anche dalla distanza. Memphis non è per le mezze misure. E' gioco di prima, scambi rapidi, è coraggio, spavalderia. A volte eccede, anche se lui non vuole ammetterlo. Fred Rutten, l'allora tecnico, lo fa debuttare in Eredivisie ma una volta sola, “sennò si monta la testa”. Partita tranquilla. All'esordio in Coppa d'Olanda, però, apre le marcature nella straripante vittoria del PSV contro il VVSB (8-0 finale).

Phillip Cocu sta per salire sulla panchina dell'Eindhoven e quell'olandese con la pelle meno bianca degli altri è difficilmente lo scordi. Se lo porta con sé in prima squadra. E' il 2011. E' uno di quei giorni che cambiano le storie e tracciano il destino. “Numero 22 (non l'ha mai cambiato, neanche in Nazionale), Depay, ecco la tua maglia” - “Nessun Depay. Memphis”. Il passato a cui siamo inesorabilmente aggrappati torna sempre a far capolino nel presente. Depay è il cognome di suo padre, l'uomo che lo ha abbandonato, quello che non è rimasto una volta a vederlo tirare col destro. Allora lui decide, con l'ingenuità propria dei ragazzi della sua età, di disfarsene, credendo così di poter seppellire i fantasmi del passato. E' uno forte, Memphis. Segna quando subentra a Driens Mertens nel 5-1 finale (gol semplice. Arriva nell'area di rigore e guarda un certo Kevin Strootman – non so se il nome vi riporta alla mente qualcuno – per farsi passare la palla. Kevin lo guarda, passa, tap-in, dentro. Gol. Quel gol è per se stesso, per la sua vita, per sua madre, per tutti quanti. Per tutti quelli che stanno cominciando a cantare 'Depay, Depay, Memphis Depay') contro l'Heerenveen. A proposito, Driens Mertens andrà via per far spazio a Depay.

Non è nato per le cose facili, Memphis. La vita glielo ha insegnato che non è tutto semplice. In giro dicono che è pazzo ma lui non ha mai fatto niente di pazzo davvero: qualche uscita notturna di troppo, tante disobbedienze, un paio di tatuaggi e la mania per il rap (ha girato un video con un gruppo chiamato Rotterdam Airlines) ma nulla di intollerabile nel vasto mondo del voetbal. Nulla di intollerabile per il c.t. Louis Van Gaal. Un altro osso duro. In occasione del Mondiale 2014, in Brasile, il generale deve fare a meno di van der Vaart e di Strootman (salvo poi perdere anche de Jong a torneo in corso), convoca Depay. Due gol in otto gare, esclusi i quarti (che si giocheranno sabato, alle 22:00 contro la Costa Rica di Pinto). Uno decisivo, contro l'Australia (3-2, video sotto), uno per chiudere le marcature contro il Cile (2-0). Memphis si è accomodato nell'olimpo con il passo imperioso della sfrontatezza che esalta il talento del diamante grezzo. Ma sa che, a scendere, ci vuole poco.