Silenzio, pudore. Forse basterebbe una sana autocritica, una sorta di analisi introspettiva, lontano da microfoni e flash. L'Italia che sul pullman abbandona il Brasile, dirigendosi all'aeroporto è un concentrato di pensieri e brutture. Una pellicola sbiadita, un film amaro. Uno spaccato di contraddizioni e polemiche.
Per capire il film Italia occorre riavvolgere il nastro partendo dalla nascita della Nazionale prandelliana. Tre anni, dalla disfatta in Sud Africa alla Confederations Cup, in cui l'Italia, in profondo declino a livello di club, aveva sempre risposto su scala mondiale. Prandelli era riuscito a creare un ecosistema in grado di sconfiggere le anomalie del bel paese e di rigenerarsi, producendo bel calcio. Ad Euro 2012 la finale con la Spagna, pluridecorata. Una mazzata. Un 4-0 non in grado però di scalfire una spedizione soddisfacente, impreziosita dal trionfo in semifinale contro la Germania. L'Italia dell'ultimo atto era un'Italia stanca, in ginocchio. La Confederations Cup ha confermato lo stato della nostra rappresentativa. Abbiamo retto, cedendo solo ai rigori, con merito.
Da quel momento è iniziato il flusso negativo, una sorta di gorgo infernale da cui, stavolta, il CT non è stato in grado di uscire. L'Italia, frantumata dai dubbi, si è lacerata al suo interno. Moduli, uomini, scelte. Il codice etico creato ad arte per purificare la Nazionale si è rivelato arma a doppio taglio, come prevedibile. La morale esiste, non per tutti. Lungo l'arco delle qualificazioni Prandelli ha sondato i papabili 23 per il Brasile, ma si è ritrovato a un passo dal Mondiale colmo di dubbi e incertezze. Ha preparato la difesa a 4 senza munirsi di esterni di ruolo e al primo infortunio, quello di De Sciglio, è stato costretto ad adattare giocatori fuori ruolo. La rinuncia a Criscito è apparsa in questo caso inspiegabile. Come quella a Ranocchia, il più in forma tra i nostri centrali.
Verratti, il gioiellino del futuro, è rimasto appeso al filo del taglio fino all'ultimo. Difficile pensare a una sua convocazione qualora Montolivo fosse stato arruolabile. Poi Rossi e Destro. Nei 30, ma non nei 23, per motivi differenti. Prandelli ha scelto la rapidità sugli esterni di Cerci e Insigne, con una sola punta centrale, Balotelli, più Immobile. Con Candreva già in rosa, scelta quantomeno discutibile se il modulo è poi un 4-1-4-1 in cui gli esterni sono in realtà di contenimento.
Già il 4-1-4-1, modulo inedito, mai sperimentato. Elogiato con l'Inghilterra, rinnegato poco dopo. Spalle al muro, si è tornati al 3-5-2. Un blocco cementato dal campionato per strappare il pari qualificazione. É valso a poco, perché il calcio ha le sue regole. E il calcio spesso punisce atteggiamenti troppo rinunciatari. Non si discute il cambio di Balotelli, o forse sì, quanto l'ingresso di Parolo. Con il solo Immobile là davanti, si regala in tal modo un tempo all'Uruguay, dando fiducia e spinta a una squadra fino a quel momento apatica. Quello, più della zuccata di Godin, è stato il segno della resa. Abbiamo perso lì, quando abbiamo scelto di non giocare.
Un fallimento tecnico ha detto Prandelli, molto di più. Il popolo che ha acclamato Immobile ha scoperto che il capocannoniere della A non può dominare in un Mondiale. Su cosa si basassero tali propositi non è dato sapersi. Segnare 20 gol a Torino non significa, fino a prova contraria, poter dominare in Brasile. Il miglior attaccante azzurro, ad oggi, resta ancora Mario Balotelli, nelle sue mille contraddizioni. Non è Messi, non lo sarà mai, per carattere e per talento, ma è di certo l'unico che può guidarci anche nel prossimo quadriennio, con al fianco Giuseppe Rossi, che lo completa e lo limita, nelle reazioni caratteriali. Ripartiamo da loro e da poco altro.
Ha salutato Pirlo e con lui si entra nel capitolo dei senatori, quelli che hanno accusato Prandelli e soprattutto Balotelli. Accusare un sol uomo di un fallimento è vile e sbagliato. Nell'Italia che si consegna al gol inglese e soprattutto al colpo di testa del Costa Rica c'è poco di Balotelli. Certo Mario era la nostra icona e ha fallito, come tutti, ma lo spogliatoio è in una grande squadra un quadro senza riflessi, una porta senza uscita. De Rossi accusa Balotelli, non ricordando la sua esperienza giovanile in Germania. Prandelli si dimette, atto nobile, ma poco dopo si morde le mani lanciando la frecciata a Mario. Il carro dei vincitori è sempre bello e attraente, un prato fiorito. Nella sconfitta la lotta si infiamma e il bersaglio è sempre quello più facile. Colpevole sì, ma non l'unico, nella lotta tutti contro tutti di chiaro marchio italiano.