Due turni da marathon man, i primi contro Radek Stepanek e il carneade francese Bourgue, poi Andy Murray ha trovato ritmo e incisività anche sulla terra rossa di questo Roland Garros segnato dalle intemperie e dalle piogge torrenziali (anche la Senna ha raggiunto il livello di guardia a Parigi). Evidentemente tanta acqua deve aver fatto sentire un po' più a casa un britannico come il buon Andy, giunto a una svolta della sua carriera.

Ormai definitivamente competitivo anche sul rosso, come dimostrato ampiamente dai successi nei Master 1000 di Madrid 2015 e di Roma 2016, lo scozzese da poco divenuto papà è rimasto l'unico avversario di Novak Djokovic realmente credibile per continuità di risultati. Con Rafa Nadal e Roger Federer fuori causa per acciacchi assortiti, è lui l'ultimo ostacolo che si frappone tra il fuoriclasse serbo e la Coppa dei Moschettieri, trofeo ancora mancante nella bacheca del numero uno al mondo. Domani un'altra occasione per trasformare una carriera da quarto Fab a giocatore capace di conquistare uno Slam su tutte le superfici, dopo gli US Open 2012 e Wimbledon 2013 (guarda caso vinti in finale proprio contro Nole). L'ultima versione di Murray, riveduta e corretta negli anni, è quella di un giocatore più aggressivo e meno titubante da fondo campo, in particolar modo con il diritto, colpo ondivago nel repertorio dello scozzese. Mai in difficoltà con il rovescio, il numero due del ranking Atp ha finalmente trovato quel coraggio che gli mancava per cercare di abbreviare gli scambi, come ampiamente dimostrato dalla semifinale vinta ieri in quattro set su Stan Wawrinka, lo svizzero campione uscente. Contro Djokovic sarà una partita a specchio, più che a scacchi, ma Murray si porta dietro il ricordo positivo della finale di Roma, precedente beneagurante datato solo tre settimane.

Eppure il britannico accusa ancora clamorosi cali di concentrazione durante i match, che consentono agli avversari di avere quasi sempre un'opportunità per rientrare o scappare via nel punteggio, e che lo inducono a un atteggiamento vagamente sconsolato, in guerra con il mondo intero, che non fa altro che danneggiarlo. Forse la consapevolezza di essere nato in una generazione di fenomeni accentua questo lato ombroso del carattere di Murray, per il quale vale assolutamente una recente dichiarazione di John McEnroe: "Se ci fosse un warning per ogni lamento (o bestemmia), Murray non finirebbe una partita". E stavolta il mancino più famoso della storia del tennis (non ce ne voglia Nadal) ha colto nel segno con una delle sue proverbiali provocazioni. Ciò che ancora distanzia lo scozzese da Djokovic (ma anche da Roger e Rafa), è infatti l'atteggiamento nei momenti di difficoltà, un misto di sconforto e rassegnazione che fa spesso pendere l'ago della bilancia dalla parte del serbo, al contrario ormai calatosi nella dimensione del vincente inscalfibile, turbato solo dal poco clamore che accompagna i suoi trionfi. Ecco perchè la finale del Roland Garros 2016 è un passaggio fondamentale nella carriera di Murray, che non parte da favorito e che non avrà addosso la pressione di dover vincere a ogni costo, stavolta tutta sul suo rivale, vicino a conquistare un career Grand Slam che lo proietterebbe in un'èlite particolarmente ristretta (basti pensare che uno come Pete Sampras non ne fa parte). Tra Nole e la gloria c'è però un britannico forse troppo orgoglioso, per il quale vincere a Parigi sarebbe l'ultimo regalo al tennis di Sua Maestà, dopo la Coppa Davis conquistata sei mesi fa in Belgio.