Apoteosi spagnola. Il pugno al cielo di Nadal. La rabbia di Djokovic. Nelle espressioni facciali, ancor più che nel tennis, risiede la vittoria del mancino di Manacor. Nella convinzione che traspare dagli occhi di Rafa, nei dubbi che invadono la mente di Nole. Qui è il segreto di Pulcinella di questa affascinante, quanto scontata, edizione degli Us Open. Ha vinto, stravinto, Nadal. Lo ha ammesso candidamente Djokovic, prima della finale. “Da mesi è lui il n.1”. Vero, ma è incredibile il percorso del due volte campione di Flushing Meadows. Costretto ai box, dal consueto infortunio al ginocchio, è rientrato addirittura più forte. Sembrava finito e invece ha sfinito gli altri. Variando al momento opportuno anche il suo stile di gioco. Sulla dolce terra ha prolungato il suo regno e all'esame su una superficie più ostica per articolazioni troppo sollecitate, ha risposto con intelligenza. Più dentro il campo, più all'attacco. Meno corsa e più tennis. Ha vinto Cincinnati, Montreal, praticamente ha vinto sempre. Ovvio coronasse anche l'ultimo capitolo a stelle e strisce. Resta l'unica macchia di una cavalcata meravigliosa, quel passaggio a vuoto a Wimbledon, col carneade Darcis. Nulla che possa intaccare un quadro perfetto. Nadal che aveva sempre sofferto Djokovic, ben più di Federer, ha compiuto l'ultimo passo verso l'immortalità. Ha intaccato le certezze del serbo. Nole ha perso, vittima delle sue insicurezze. Ha perso di testa. In quel terzo set in cui ha sprecato occasioni in serie, ha consegnato il trofeo nelle mani di Rafa. Ha sbottato, urlato, cercato conforto nell'angolo amico. Poi è crollato. Non è la macchina del 2011, nonostante le tre finali Slam dell'anno e l'ennesimo titolo in Australia. Sbaglia, troppo, si incarta vittima dei suoi stessi errori. Incerto indietreggia, pensa e subisce. Accetta la battaglia campale da fondocampo. Accetta di scambiarsi montanti a tutta forza, con un pugile come Rafa, nato per la battaglia all'ultimo colpo. E perde. Come è normale che sia. Perché mentalmente non è Nadal. Che cede il punto più lungo del match, che rischia di capitolare sotto 0-40 nel terzo, al punto di non ritorno, e poi risale. Araba fenice incapace di accettare la sconfitta. É migliorato Nadal, sembrava impossibile. Forse ancor più maturo, se possibile ancor più vincente.
Murray e Federer. Roger e Andy, gambe traballanti di un tavolo scricchiolante. Loro, ultimi tasselli dei fab four che cercano un'identità persa lungo il cammino impervio di una stagione agli sgoccioli. I pensieri del re decaduto, tra propositi di ritiro e colpi di coda, e le amnesie del baronetto britannico, profeta in patria, ma in crisi al cospetto del cemento americano. A sprazzi entrambi. Federer vittima di età, acciacchi, idee ormai vetuste. Lui, pianista della racchetta, alfiere elegante del tennis che fu, costretto ad adattarsi al gioco veloce e potente di oggi. Cambiare per tornare, l'ultima sfida del più grande. Murray, l'eterno secondo, diventato grande nella Londra olimpica, prima ancora che a Wimbledon, paga la mancanza di continuità che è propria dei signori che albergano al suo stesso scranno. Djokovic e Nadal non steccano quasi mai. Andy spesso.
Il talento. Wawrinka e Gasquet. Sono loro ad avere acceso i riflettori su Flushing Meadows. Il rovescio a una mano, l'arte del bello. L'estetica oltre la forza. Lo svizzero che batte Berdych, prima di spremere Murray e spaventare Djokovic, è gioia per gli occhi. Il più bel Stanislas di sempre. Cede al quinto, in semifinale, perché Nole è atleta incredibile. Cede vittima di adduttori in fiamme. Esce tra gli applausi. Richard ritrova se stesso. Per la prima volta si trasforma da cigno dormiente in tennista vero. Soldatino Ferrer rimonta due set e vede il traguardo, conscio dei limiti caratteriali del francesino di Béziers. E invece lì arriva la metamorfosi più inattesa. Si scopre vincente Gasquet. Per una volta la classe effimera diventa concreta.
Rimandati. I giovani di oggi, cresciuti con etichette pesanti, tradiscono. Novelli Federer più per la carta stampata che per quanto mostrato sul rettangolo tennistico, si sciolgono al sole di gioventù e pressioni. Raonic, Janowicz, Dimitrov. Forti, belli, potenti. Baciati dal genio del gioco, ma forse troppo sponsorizzati. Il macigno di pesanti eredità piega spalle larghe ma non abituate all'aria rarefatta di palcoscenici prestigiosi. Diventare grandi, essere campioni, è ben diverso dal mostrare colpi di livello. Tanti si sono persi lungo la via della grandezza. Tanti hanno scoperto l'ebbrezza della gloria prima di tornare nel purgatorio dell'anonimato.
Seppi e Fognini. Casa Italia plaude le ragazze in gonnella, simbolo di carattere e qualità, e si interroga sul futuro di un settore maschile ormai alla mercé della cicala Fognini. Sconcertante la sua uscita di scena all'esordio con il giovane Ram. Scoppiettante sulla terra di Stoccarda e Amburgo, scostante nell'antipasto pre Us open e ancor più nell'ultimo Slam dell'anno. Difficile capire le amnesie mentali di un ragazzo che ha tutto per esser grande, ma sembra sul punto di gettare una carriera dalle infinite possibilità. Nello sport la testa conta più del talento. Il non saper crescere, il continuo fermarsi di fronte a reiterate lacune psicologiche, sta offuscando il genio scintillante di un campione in divenire. Il Fognini tennista è oggi un vorticoso frullato di emozioni, un incontrollabile dentro-fuori, più volte ripetuto nella stessa partita. Non sai cosa aspettarti mai. E questo è limite non da poco. La formica Seppi ha lanciato invece segnali incoraggianti. In fondo al tunnel si intravede la fioca luce. Niente di eccezionale sia chiaro, ma un barlume di speranza. Ha battuto Malisse e Devvarman, prima di perdere la maratona con Istomin. Passi avanti. Una citazione la merita il giovane Fabbiano. Alla prima apparizione mostra grinta e cuore da vendere. Quel suo incessante saltellare per rispondere alle bordate del bombardiere canadese Raonic è uno spot per chi ama il tennis. La voglia di competere, la voglia di esserci, aldilà di limiti fisici innegabili. La forza della volontà, una sorta di pugno in faccia ai ragazzotti baciati da madre natura, ma vittime di ozio e vizi.