“Non ho fiducia”. Tre semplici parole, fragorose, che affondano le unghie sul viso svuotato di Roger Federer. Il campione è solo con se stesso, in un colloquio interiore, vietato a microfoni, stampa e pubblico. Il Louis Armstrong ha assistito impotente alla caduta dell'eroe prediletto. In ogni modo Flushing Meadows ha provato a rialzare la nobiltà decaduta. Niente da fare. “Ho perso da solo”. E con tutto il rispetto per l'onesto Robredo, mai ammissione è parsa più vera. L'annus horribilis di Federer si chiude senza finali dello Slam. Dal lontano 2002 non accadeva. Stupisce la debacle del più grande, quasi più della sua longevità. Dieci anni e più al vertice, senza mai saltare un appuntamento clou. Cade sul cemento americano, sul suolo amico. Prima dei quarti di finale. Salta il duello con Rafa Nadal. E forse è meglio così. Il Federer con le mani nei capelli, in lotta con il suo “Io” tennistico, col suo essere eterno, poco avrebbe potuto contro la furia del maiorchino. Roger è sempre stato eleganza e classe. Timidezza quasi. Il genio riservato, opposto all'istrionico Rafa. I pugnetti, che paion carezze, di Federer contro i vamos tonanti del mancino di Manacor. Una rappresentazione sul campo che rispecchia il carattere dei due interlocutori privilegiati del dio della racchetta. Forse sta anche qui la differenza di posizione di fronte alle difficoltà. Rafa sconfigge i guai al ginocchio e torna immediatamente grande. Per Federer il declino è qualcosa di diverso.

I problemi alla schiena, l'incertezza sul possibile cambio di attrezzo, dopo un decennio. Piccoli frangenti di un'analisi introspettiva molto più intricata e contorta. All'alba dei 32 anni Federer si interroga. “Finché avrò il piacere di giocare continuerò”. Così aveva risposto alle prime insistenti domande su un possibile stop. Ora però i dubbi affiorano più prepotenti. La semifinale con Murray all'Australian Open, i quarti con Tsonga al Roland Garros, ma soprattutto il secondo turno con Stakhovsky a Wimbledon. Un solo squillo a Halle, che è ben più di una casa. Una finale a Roma, travolto da Nadal. Solo sprazzi di Federer. Lui esempio di continuità incontra l'acerrimo nemico del tempo. Passaggi a vuoto, in parte inspiegabili. Errori non da campione. Intatta l'arte tennistica, sol più dissennata. Quell'intestardirsi in soluzioni non appaganti con Robredo testimonia la confusione mentale di un numero uno che si accorge di non esser più tale. Federer prova a contrastare i suoi “incubi” come avrebbe fatto un tempo. Faccia a faccia. Cerca nella sua mente la forma più complicata, la via più impervia, come il colpo più impensabile. Nelle difficoltà, dove la soluzione adeguata è spesso la più semplice, tende a complicarsi la vita.

Sarà ora, ancora una volta, il tempo delle riflessioni. Continuare o meno? Riprogrammare? Il momento più difficile per un'icona dello sport è il momento dell'addio. Capire quando i saluti sono diventati d'obbligo. Dire stop, per non oscurare quel che è stato. Federer riflette. Difficile che un grandissimo possa lasciare dopo una stagione priva di acuti. L'idea potrebbe essere quella di concentrare tutto in unico appuntamento. Una sorta di “o la va o la spacca”. L'ottavo Wimbledon magari, o il sesto Us Open. Impresa difficile. Quello che riuscì a Sampras, appare impossibile a Roger. Il menù è ricco, i rivali numerosi. Djokovic, Murray, Nadal. Che tutti e tre stecchino un torneo importante è utopia. E allora? Allora l'uomo di Basilea pensa. Interroga se stesso, sfida i suoi demoni. Quanto può essere duro un addio, quanto può essere lungo il crepuscolo del campione. Ah se fosse solo un ginocchio, un normale mal di schiena...