Epopea inglese. Spettacolo sull'erba. Novak Djokovic conquista la finale di Wimbledon superando in cinque set al cardiopalma Juan Martin Del Potro. Vince soffrendo, non giocando il suo miglior tennis. Vince contro un avversario non al meglio. Indomito lottatore l'argentino. Capace di riemergere sempre. Dopo aver perso primo e terzo set. Dopo essere stato praticamente sotto la doccia nel quarto. Un incontro normale nei primi due parziali, che diventa epico col passare dei minuti. Diventa celestiale nel tie-break del penultimo parziale. Il pubblico all'inizio sornione, entra, coinvolto, in partita. Ammira e applaude, due grandi campioni. La spunta Nole, come detto, con la consapevolezza, che oggi, avrebbe potuto vincere Juan Martin. Perde Del Potro, ma esce a testa altissima. Perde, ma ha capito oggi, dopo un periodo difficile, che è di questo livello, che su questo prato può tornare, perché no, per alzare il trofeo, per vincere i Championships.

 

Djokovic-Del Potro. La classe serba contro la potenza argentina. Il n.1 del mondo che rivuole Wimbledon, che rivuole senza mezzi termini la leadership mondiale, aldilà di ranking e statistiche. Da troppi mesi non è più dominante, da troppi mesi non è più il leader incontrastato. L'avversario non è affatto dei più morbidi. Soprattutto sull'infida erba, quella stessa erba, allora olimpica, nella Londra a cinque cerchi, che ha visto Del Potro sopraffare Nole. Lì e poi a Indian Wells. Due campanelli d'allarme. Il terreno veloce è il prediletto da Juan Martin e non potrebbe essere altrimenti con quel corpaccione e quella potenza. Lui, miracolato, arrivato qui tra acciacchi e paura. Ha tremato per quel ginocchio ballerino, fasciato a più non posso e rimesso in sesto con una serie di infiltrazioni, dopo l'iniziale infortunio e il colpo, duro, subito nel primo game contro Ferrer. Sembrava finita lì e invece, con la “garra” tipica dei sudamericani, Delpo si è rialzato e ha proseguito, addirittura vinto. Non si abbandona il Centre Court, non si lascia Wimbledon. Ora però l'ostacolo si chiama Djokovic, uno difficile da battere anche se si è al 100%. Servirebbe un Del Potro versione 2009, quel Del Potro che, sul cemento di Flushing Meadows, fermò Federer, facendo pensare all'avvento del quinto “favoloso” tennista. Da lì infortuni, soprattutto il maledetto polso, la discesa e la risalita, dura. Ora di nuovo protagonista, sul verde, in semifinale.

 

Chiaro fin da subito lo schema tattico di Djokovic. Variare i colpi, cercare angoli strettissimi, costringere Del Potro a muoversi, obbligarlo a cercare sempre il colpo risolutivo. Fiaccarne la resistenza. L'inizio è, come prevedibile, il festival del servizio. Il primo vero gioco è il sesto. Finalmente equilibrio. E palla break per Nole. L'annulla l'argentino con la prima al centro, ma mostra i primi segni di cedimento. Due doppi falli, la concentrazione che si perde in proteste e richieste. Come con Berdych, nonostante l'equilibrio, si ha l'impressione che Novak abbia qualcosa in più. La qualità è più bassa rispetto al quarto di finale, ma la sostanza non cambia. Sul 5-4 si salva ancora Del Potro con un gran dritto che alza la polverina bianca, ma sul 6-5 non può nulla. Avanti 30-0, subisce l'impressionante rush finale di Djokovic. La consueta scivolata, una serie di meravigliose difese, il vero Djokovic. Quattro punti consecutivi, con l'ultimo errore del tennista di Tendil. 7-5.

 

Il parziale del rimpianti. Servisse un titolo, non potrebbe che essere questo. Djokovic sale di colpi, ritrova la risposta, suo marchio di fabbrica, accumula palle break in serie, nel sesto gioco, decisivo come nel primo set, ma il muro sudamericano regge, grazie al coraggio che spinge Del Potro a rete, non proprio luogo di casa, e al servizio, arma impropria, quanto necessaria. Un ace per annullare la seconda chance di Nole, che poi stecca, sparacchiando via anche la terza occasione di un gioco maledetto. L'argentino tiene il servizio e punisce l'avversario sprecone poco dopo. Break a zero e allungo. La reazione di nervi del n.1 si manifesta nell'ennesima possibilità di rientrare sul 4-4, ma è ancora una volta la battuta a estrarre dalle sabbie mobili Juan Martin. Si chiude sul 6-4, con Nole costretto a cedere il primo set del torneo.

 

Il tennis non è una scienza esatta. É un altalena di emozioni, un vortice continuo, è centrifuga inspiegabile di errori e prodezze. Accade così che con poco più del 20% di punti con la seconda Djokovic strappi il terzo parziale al tie break. Il serbo soffre, privo di continuità, ricorre, come solo i campioni, al colpo più sicuro, la prima di servizio e ringrazia Del Potro che prima mette in rete una comoda volée e poi in corridoio il dritto, sul 3-3. Col passare dei minuti sale Nole e sul 6-5 si procura addirittura tre set point. Sui primi due sbaglia lui, sul terzo bisogna alzarsi in piedi e applaudire semplicemente Delpo. La risposta di Djoko è profondissima, tra le gambe dell'argentino, che con un passo indietro, colpisce con violenza di dritto, stampando il vincente all'incrocio delle righe. Una meraviglia. Apprezzano i fini palati inglesi. La scossa psicologica prevederebbe uno scontato prolungamento. E invece no. Sorpresa. Ancora una volta. L'errore di Del Potro, sotto 3-2, è decisivo. Il comodo smash che si spegne in rete è un segno di resa. Il set entra nella bacheca di Nole, premiato forse oltre i propri meriti. Non è crollato, è rimasto aggrappato alla contesa e ha raccolto i frutti. Fatali a Del Potro alcuni errori nei momenti decisivi del parziale.

 

Lo spartiacque tra la gloria e la resa, tra la finale e i saluti, è ancora una volta la parte centrale del set. Dopo un avvio splendido di Djokovic e la reazione di Del Potro, si giunge, nel rispetto dei servizi, al 3-3. Qui sale in cattedra Nole. Il serbo inventa una serie di risposte incredibili, alza il livello del gioco. Ci prova Del Potro a reagire, annullando alla grande una palla break, ma sulla seconda non può nulla. Troppa la pressione del primo giocatore del seeding. Perfetto al servizio, letale in ribattuta. Djokovic allunga, ma non è per niente finita. A un passo dal baratro, dopo oltre tre ore e mezza di battaglia, rinasce l'argentino. Conquista e concretizza, con un vincente d'autore, la palla del contro-break. Da qui diventa una partita fantastica. La racchetta si scioglie di invisibili redini e diventa strumento di vera e propria lotta. Del Potro e Djokovic mettono sul prato tutto quello che è rimasto. Ogni energia è riversata sulla pallina. Il tie-break, naturale approdo di un incontro pazzesco, è di un livello elevatissimo. L'occhio di falco abbraccia prima Nole e poi Delpo, giudice imparziale. L'argentino resiste fino al limite delle umane possibilità, annulla due match-point, annulla la capacità di Djokovic di ributtare di là ogni cosa, di difendersi sempre e comunque. L'epilogo di una maratona da applausi è nell'urlo di Del Potro. 7-6 per la torre di Tandil. Si va al quinto.

 

Il quinto set è qualcosa di diverso. Qualcosa che tende a estraniarsi dal resto della partita. É guerra di nervi e di testa. Le energie sono al lumicino. Ogni errore può essere fatale. Del Potro si procura una palla break sul 2-2. Djokovic si salva col servizio. Entambi si trascinano per il campo. L'argentino ricorre addirittura al massaggiatore, ingerendo zuccheri prima dell'assalto decisivo. Ancora una volta sfiora la caduta, ma gli errori del n.1 lo tengono in vita. La lucidità abbandona però la testa di serie n.8, che concede altre due occasioni al serbo. La seconda è fatale. La stanchezza offusca la mente di Delpo che cede. Djokovic serve per il match e stavolta chiude, dopo l'ultimo brivido. Dopo l'ultima palla break annullata. Stavolta è veramente in finale. 6-3.