Nacque a Flushing Meadows la leggenda di Pete Sampras, lì nel lontano 1990, nel torneo degli Stagni Scintillanti. Partì in suolo americano, in suolo natio, la favola che lo vide diventare principe inglese, sull'erba di Wimbledon, pochi anni dopo. Sul duro cemento, tormento di ginocchia e atleti, piegò quella che fino a quel momento era stata la storia del gioco. Newcombe in tribuna, a bocca aperta commentò così il suo avvento “Non sembra nessun altro, è giusto se stesso, un genio.” Il primo assaggio di Wimbledon vero e proprio lo ebbe nel 1992, quando si affacciò ai quarti di finale, superando il tedesco Stich, prima di cedere il passo al volenteroso Ivanisevic. La prima di tante battaglie, l'ultima sconfitta.

La tripletta dorata. L'anno dopo tornò. Tornò, non in condizione. La terra rossa aveva presentato il conto al tennista naif, amante del bello, ma non del sudore. Pete era pigro, indolente, restio all'allenamento duro, nonostante la “scuola” Lendl e accusava spesso guai fisici. La spalla, i muscoli pettorali, con loro le batoste subite al Foro e al Roland Garros, su quell'infida superficie che tutto rallenta e tutto rimanda. Costa fatica e corsa. E allora meglio puntare su Agassi, vincitore l'anno prima, o sul redivivo Ivanisevic. Perché no su Boris Becker. Tanto più che nemmeno il Queen's aveva restituito a Pistol Pete le sensazioni giuste. Gli dei della racchetta tendono però ad aiutare i figli prediletti. Dopo i primi turni difficili, arrivò l'atteso quarto con Agassi. Un Agassi a mezzo servizio, battuto al quinto da un Sampras costretto a ricorrere al servizio dei giorni migliori, a costo di peggiorare un visibile infortunio. Ci sono momenti che decidono un torneo. Ecco lì si decise quell'edizione di Wimbledon. Riposo e cure rivitalizzarono l'americano, che giocò divinamente la semifinale con Becker. L'ultimo atto lo opponeva a Big Jim Courier. Non certo erbivoro, non certo artista come il connazionale. Favorito da quel rallentarsi progressivo di un'erba calpestata da migliaia di indemoniate scarpette, lungo l'arco di due settimane, corridore e combattente inesauribile, Courier giunse lì, sconfiggendo Edberg, col suo gioco da fondo, fatto di batti e ribatti, che poco dovrebbe addirsi a un terreno veloce. Nel festival del servizio, Pete conquistò due tie break, cedette il terzo set, prima di archiviare la pratica, conquistare il suo primo Wimbledon e aprire una nuova era ad appena ventuno anni.

Il Sampras che arrivò a Wimbledon nel 1994 era ormai riconosciuto padrone dell'erba. Lo stesso Becker lo definì tale “Qui c'è un n.1, ma non si può dire chi sia il secondo, il terzo o il quarto.” Fu questo il suo secondo alloro e forse il più agevole. Mancava il vero antagonista, la nemesi capace di evidenziarne i difetti e incunearsi nelle incertezze del campione. Potevano esserlo gli spagnoli come Bruguera sulla terra, non poteva esserlo nessuno sull'erba. Servizio, dritto, volée, un concentrato di colpi perfetti. Le uniche difficoltà potevan forse portarle i primi turni, in cui la conoscenza con quel verde oscuro, porta attenzione e rispetto. Quel verde scivoloso e avversari ostici per l'approdo nel torneo potevan forse creare qualche grattacapo a Sampras, qualora non avesse scelto la sua veste migliore. Ma non fu così. Palmer, Reneberg, Adams. Battuti, nettamente. Con Chuck Adams fu costretto anche a cambiar campo. Il re accomodato sul n.2, quello della maledizione di Tutankhamon. Non creò grossi problemi nemmeno questo. Come non posero grandi quesiti Chang, Martin e Ivanisevic. Martin lo aveva appena battuto al Queen's, ma era altro Sampras e il croato, memore del 1992, sognava altra impresa. Sognava. Il match durò in sostanza due set. Apoteosi di servizi, ace, colpi a rete. Esaltazione della battuta sopra ogni altra cosa. Due tie break. Li vinse entrambi Sampras. Perché è in quei prolungamenti che emergono le piccole differenze che separano un ottimo giocatore da un campionissimo. Il terzo set volò via. Il guerriero Goran calò la maschera e rese le armi. 6-0. 7 punti. La miseria del suo fatturato. La Coppa avvolta dalla bandiera a stelle e strisce per la seconda volta.

La trilogia si completò nel 1995. Boris Becker sembrava un uomo in missione. Sconfiggere uno dopo l'altro Agassi e Sampras e prendersi i Championships. Prenderseli battendo le due icone americane. Due sublimi tennisti, due differenti profeti del gioco. Riuscì solo in parte. Battè Andrè e per un attimo rischiò di non trovare Pete. Già perchè a Sampras servirono ben cinque set per sbarazzarsi di Ivanisevic, ancora lì, sul suo cammino, sull'erba. Si issò al tie break nel primo set il tedescone e lo vinse. Allungando quella magia, quel sogno sportivo. Ma l'“orco” Sampras resuscitò, e il sogno divenne incubo. Quel volo, goffo, quello strusciarsi sul prato di Wimbledon, col sorriso del suo avversario a segnarne il momento. Lì, al terzo gioco del secondo parziale, si capì che l'illusione era finita. Lo scivolone di “Bum bum” e le braccia levate di “Pistol Pete”. La restaurazione completa. Non concesse più nemmeno una misera palla break. Non concesse più niente. Entrò tra gli Immortali.

Il bombardiere ceco. Il 1996 segnò una delle più grosse sorprese del recente passato tennistico. Pete Sampras giunse a Wimbledon da favorito, poco importava lo scarso allenamento. Aveva già dimostrato svariate volte di poter superare siffatti problemi. Quell'anno non fu così. Ci provò ancora una volta la mano nascosta del cielo della racchetta a salvarlo dalla maledizione Krajicek. Non solo le frequenti interruzioni per pioggia, un campo reso umido da quel fai e disfa vorticoso di teli e teloni, anche l'infortunio di un inserviente durante la copertura del campo. Svenimenti, caos, non di casa tra gli inglesi e beffa delle beffe partita sospesa più del dovuto, perché a giudizio del giudice di sedia il terreno era stato reso impraticabile, eccessivamente bagnato, da quanto avvenuto. A quel punto Pete era già sotto due set a zero, 7-5 7-6, e sembrò, quello, intervento di forze soprannaturali. Quell'“energumeno” di Richard, per usare una terminologia cara al Clerici, era giocatore di forza soprannaturale, tecnicamente limitato, ma in grado di servire in modo straordinario e in quella giornata di grazia di eliminare il principale candidato al titolo. 6-4, l'ultimo set. Cadde così Sampras, mentre Richard continuò la sua cavalcata, fino alla vittoria contro Washington. Fece rumore il tonfo del campione in carica. Poco preparato fisicamente e mentalmente. Pigro anche dal punto di vista tattico, ostinato nel chiamare in causa il rovescio del suo dirimpettaio. Miglior colpo di giornata, ovviamente dopo la devastante prima di servizio.

Un quadriennio di vittorie. Il torneo del 1997 finì in sostanza nei quarti di finale. Il mondo delle palline gialle e degli attrezzi in continua evoluzione si fermò per salutare l'addio al Centre Court di Boris Becker, l'istrionico che piaceva per il suo modo di interpretare il tennis. Gioco d'attacco e coraggio, per pubblico e appassionati. Il tuffo e il tocco. Il lampo a sensazione. Uscì, come d'uopo, contro il più grande. Contro il campione che lui stesso ammirava, Pete Sampras. Si concluse in buona sostanza lì anche il torneo di Pete, perchè la semifinale con Woodbridge e la finale con Pioline non potevano regalare altro che un esito scontato. Cedric riportò in finale la Francia per la prima volta dal lontano '45, ma non aveva caratura e classe per questo livello. I numeri non dicono tutto, ma qualcosa sì. Il n.44 del mondo aveva qualche chance contro il n.1, uno dei più grandi n.1 di sempre? No.

Il '98 segnò il quinto Wimbledon di Sampras, che appaiò Borg. Sembrava quello il momento esatto, l'attimo atteso, il carpe diem tennistico, per l'atleta di Spalato, se non altro per il pessimo Sampras visto fino a quel momento. Il destino scelse altro, come sempre qui sulla nobile erba. Chissà che il croato non ricordi ancora quei due set point nel tie break del secondo set, dopo aver vinto il primo. Gli errori e la goffa volée. Lì forse consegnò le chiavi a Sampras. Sull'orlo del baratro, di nervi più che di tennis, resuscitò nel quarto, ma l'esito era scritto da quell'infausto prolungamento del secondo parziale. Finì 6-2 al quinto per l'americano. Stremato e deluso, Goran ricordò la maratona in semi con Krajicek, ricordò e scosse il capo. Il treno, l'ennesimo, era passato.

Il sesto titolo arrivò nell'anno di Agassi, 1999. Andrè conquistò Parigi e poi New York, ma cedette in finale a Londra. Davanti al maestro, giunto al dodicesimo slam. Forse la vittoria più convincente. Contro il miglior Agassi, maestro della ribattuta, ma in quell'occasione eccezionale anche al servizio, Sampras sfoderò il miglior tennis. “Mi ritrovo con tre palle break in mano, e d'un tratto, in sei minuti, quello mi da 6-3 e mi strappa il servizio all'inizio del secondo”. Le parole di chi era in campo in quel momento, per certi versi addirittura favorito, rendono meglio di qualunque spiegazione. Sampras sublimò la sua capacità di gioco, trasformò il suo tennis in qualcosa di superiore, avvicinandolo all'arte. 6-3 6-4 7-5.

L'ultimo capitolo di questa saga ci porta al 2000. Tutto molto più facile. Gambill, Voltchkov e infine Rafter, australiano bello e dannato, di talento, amante del gioco di rete, ma non in grado di sconfiggere Sampras. Vinse il primo set al tie break, ma sul lungo periodo calò e crollò 6-2 al quarto. L'erba di Wimbledon premiò Pete per la settima volta, come solo Renshaw prima e Federer poi.

Già Federer. Il destino, spesso già citato, sembra avere leggi strane. Destino o caso, o qualsivoglia definizione. Nello sport in particolare. Il 2001 fu la fine del Sampras vittorioso, la fine e l'inizio. Iniziò una leggenda nuova, leggenda svizzera. Iniziò dalle ceneri della precedente. Un passaggio quasi studiato da una mano invisibile. Sull'erba, che poi sarebbe stata la casa di Roger, com'era stata la dimora di Pete. Cinque set, perchè non poteva essere banale l'addio del re, così come scontato l'insediamento del “giovane signore”. Avrebbe potuto anche vincere Sampras, se in quell'ultimo parziale avesse concretizzato le due palle break a suo favore, ma avrebbe rotto l'incantesimo creato ad arte. E allora sul filo sottilissimo di una riga e di una rete, si issò Federer, per nulla tremante. Giovane profeta pronto a raccogliere l'eredità. Si Stupì il Centre Court. Ci si stupisce sempre quando i cambiamenti sono così epocali. Ma presto si innamorò del suo nuovo figlio prediletto. Quel riservato ragazzo di Basilea, dall'infinito bagaglio tecnico, sempre alla ricerca del colpo impossibile, capace di scovare nei meandri delle matematiche traiettorie, ingegnose alternative. Sì stupì, ma capì che quel ragazzo, ancora acerbo, avrebbe riscritto i libri del gioco, avrebbe cambiato il gioco. E lo fece. Ma questo merita un altro capitolo.