Togliamoci il dente: il Gp del Messico, che riaccoglieva la F1 dopo ben 23 anni (l’ultima affermazione di Nigel Mansell nel 1992), è stato tutt’altro che indimenticabile. Il carico di aspettative che il rinnovato circuito intitolato ai fratelli Rodriguez portava con sé si è disciolto in una corsa che, aldilà della lotta iridata già in archivio da Austin, non ha mai offerto grandi emozioni.
Anzitutto per la superiorità delle Mercedes sul resto del gruppo emersa lungo l’arco del weekend e palesatasi in gara, a cui neanche l’uscita della Safety Car nelle fasi finali ha saputo restituire un briciolo d’incertezza. Per il mancato confronto tra Rosberg e Hamilton, con l’inglese troppo lontano alla staccata della prima curva per ripetere gli scherzetti di Suzuka ed Austin, e dissuaso dal tentare l’azzardo della singola sosta per scavalcare il team-mate nel gioco delle strategie. Infine, per la gara ad handicap di Sebastian Vettel, ‘pizzicato’ alla prima curva da Ricciardo ed estromesso dalla lotta di testa ancor prima di fare sul serio.
Un peccato dato il passo esibito dal tedesco, capace di girare a lungo sui tempi delle Mercedes e talvolta persino meglio: significativo il 25° passaggio, quando Seb ha staccato il crono di 1’23”6, a 0.4” dai tempi fatti segnare dalle Frecce d’argento ma con gomme compromesse dal testacoda in curva 7 (all’imbocco delle esse) avvenuto poco prima. La conferma 11 tornate più tardi quando il tedesco, costretto alla seconda sosta, è rientrato doppiato proprio tra le due Mercedes, riuscendo a tenere piuttosto agevolmente il ritmo del battistrada Rosberg seppur – va precisato - con gomme più fresche di 10 giri.
Restano considerazioni accademiche per via del contatto alla prima curva, che ne hanno guastato gara e lucidità (portandolo a due errori in fotocopia per lui inusuali), ma sarebbe stato comunque interessante vedere Vettel mettere pressione agli alfieri Mercedes. Il titolo di vice-campione iridato si allontana, con Rosberg in vantaggio di 21 punti a due gare dal termine, ma per la Rossa, attesa a un 2016 da protagonista assoluta, sarebbe stato comunque un palliativo.
Se è vero che le potenzialità dell’auto si vedono dalle performance del secondo pilota, la buona vena della Ferrari è avvalorata dalla gara di Raikkonen, autore di una brillante rimonta dalla 19ima posizione in griglia, causata dai problemi ai freni accusati in qualifica e dalla retrocessione di ulteriori 35 posti cumulati per la sostituzione di cambio e motore. Il finlandese è risalito di slancio fino al 6° posto quando si è trovato a tu per tu con Bottas, che gli ha restituito – non senza malizia – la ruotata di Sochi in una dinamica per certi versi simile, stavolta col pilota della Williams nei panni del ‘giustiziere’. Va aggiunto che, una volta affiancati nel sinistra-destra delle curve 4-5, Valtteri avrebbe dovuto alzare il piede per evitare la collisione mentre il tentativo di Kimi in Russia apparve subito velleitario e perciò meritevole di 30 secondi di penalità da sommare al tempo finale. Stavolta i commissari hanno invece valutato il contatto come normale incidente di gara.
Per il resto, la corsa ha smentito le previsioni di una singola sosta formulate da Pirelli. I 42° dell’asfalto - +15 rispetto al venerdì – assommati a un grip rimasto carente hanno innescato un degrado marcato sulle gomme posteriori (con graining sulla mescola soft per alcuni) facendo sì che tutti i piloti eccetto Perez optassero per la doppia fermata ai box.
Complicazioni che non hanno prodotto alcuno sconvolgimento in classifica, così come l’affidabilità, da molti attesa come variabile ‘killer’ dopo le avvisaglie delle prove. Invece la rarefazione dell’aria dovuta alla quota (2.200m slm) ha sì generato noie di raffreddamento a motore e impianti frenanti ma comunque gestibili dai vari team. La Mercedes, dopo l’inconveniente occorso a Rosberg in FP2, è corsa ai ripari aprendo i cestelli in carbonio, estremizzando così la soluzione portata in Malesia e privilegiando l’affidabilità all’efficienza aerodinamica: dettagli, data la supremazia offerta in pista dalle monoposto anglo-tedesche.
Un monologo che è andato a detrimento dello spettacolo, penalizzato ancor più da un layout provvisto di un solo, vero punto adatto al sorpasso, in fondo al rettifilo principale (366.4 km/h la punta massima segnata da Maldonado su Lotus Mercedes). Surreale, poi, la sezione dello stadio, alla stregua di un kartodromo: ennesima testimonianza di come i circuiti ‘Tilke style’ siano dettati più da esigenze televisive che tecniche.