Siamo alle solite, arriva il Natale e si tirano le prime somme. C'è chi esulta per essere riuscito a mangiare il celeberrimo panettone, e chi compiange i propri errori nonostante si trovi soltanto a metà dell'opera. Sia chiaro, Mancini il suo panettone lo aveva già bello che digerito ma le critiche, piovutegli addosso negli ultimi giorni, fanno storcere il naso a tutti. Già, perchè l'allenatore jesino, dopo le sfavillanti vittorie contro Frosinone e Udinese, è tornato nuovamente nel baratro al primo accenno di zoppia della sua ancora embrionale creatura.

Che l'Inter fosse alla ricerca del bel gioco lo si era capito già da un pezzo, ma i meriti del buon Roberto sono quelli di aver creato una squadra solida e con una precisa identità, in cui ogni elemento è più che funzionale al progetto. Tuttavia la sconfitta di domenica sera contro la Lazio ha lasciato stracischi pericolosi e, potenzialmente, letali. Infatti, contrariamente alla debacle contro la Fiorentina, il campanello d'allarme si è acceso non tanto per motivazioni tecniche, quanto per fatti poco attinenti al rettangolo verde. Gli aspetti psicologici e comportamentali sono quelli più toccati poichè, follie di Melo a parte, la squadra non ha approcciato bene il match probabilmente sminuendo l'avversario. A rincarare la dose ci hanno pensato le liti interne di uno spogliatoio che definire compatto sarebbe troppo riduttivo. Ovviamente l'opinione pubblica non aspettava altro, visto che ormai da troppo tempo la banda Mancini era in vetta per "chissà quali coincidenze astrali". Non è un mistero, i nerazzurri piacciono poco e, ai primi segnali di cedimento, diventano bersaglio di critiche e maldicenze. La concretezza e il cinismo sono alla base del gioco del calcio, ma forse  qualcuno non ha ancora fissato in mente questo concetto.

I diverbi, rispettivamente tra il tecnico e Stevan Jovetic e tra Icardi e Melo, sono frutto di un attaccamento esasperato alla partita e alla propria classifica, costruita sudando mattone dopo mattone. La scelta di sostituire il montenegrino, dopo la fine del primo tempo, non sarebbe passata inosservata al diretto interessato che avrebbe chiesto spiegazioni al proprio allenatore. Nulla di più. Non serve speculare su chiacchiere e ipotesi. Il nervosismo di fine gara, testimoniato anche dalla discussione tra capitan Icardi e Felipe Melo (poi sedati da Guarin), è più che legittimo. Anzi, forse è segno di pura maturità. La squadra, attraverso un'autocritica a caldo, comprende gli errori e metabolizza grazie al gruppo. Non c'è traccia di protagonismo o primadonnismo. C'è solo la voglia di raggiungere traguardi importanti e, soprattutto, di farlo insieme.

La stessa tristezza di Ljajic, dopo aver saputo di essere fuori dall'undici iniziale, è figlia di un momento di forma straordinario del serbo che, come tutti i suoi compagni, riteneva di poter essere utile alla causa. Basta speculazioni. Basta malelingue. Il gruppo Inter è più unito che mai e si stringe attorno al suo allenatore. Certo, anche Mancini (in quanto essere umano) ha commesso degli errori, a volte anche grossolani, ma se confrontiamo la classifica dell'Inter 365 giorni fa viene la pelle d'oca. Allora, forse, quest'uomo qualche merito ce l'ha. Non sarà il nuovo guru del calcio totale ma sa il fatto suo, e riportare l'Inter in testa alla classifica dopo quasi cinque anni non è roba da comuni mortali. Serviva una scossa e lui ha saputo darla. Spezzerei non una ma mille lance a suo favore. Magari i suoi giocatori non andrebbero in guerra per lui (non è il Mourinho della situazione), ma andrebbero in guerra con lui. Perchè infatti uno stratega così non conviene lasciarlo scappare.