Senza reti e senza applausi. Cala il sipario sul derby, e il giorno dopo è ricco di attacchi e critiche, di sentenze, definitive. Sui maggiori quotidiani emerge chiaro il raffronto fra le grandi battaglie del passato e le scialbe scaramucce del presente. Dai giocatori in campo all'idea di grandezza della Milano calcistica, da Maldini e Zanetti a Ranocchia e Abate, una descensio che accompagna non solo la stracittadina rosso-neroazzurra, ma tutto il panorama italiano.
Se il confronto è con il passato, allora sì, è fallimento, senza mezzi termini, ma lo scatto in avanti prende il via, necessariamente, dalla chiusura al ricordo, a speranze che sono destinate a restare chiuse nel cassetto per diverso tempo. Milan e Inter sono al primo incrocio, devono scegliere il futuro e devono farlo con attenzione. Dalla base si costruisce la solidità di un progetto, dalla base si denota la consistenza di un cammino.
In questo senso, il derby ha una valenza, importante, perché lancia segnali difformi sulle due squadre. L'Inter è più avanti del Milan, perché ha un'idea, di calcio. La presenza di Roberto Mancini sposta l'ago della bilancia, e il confronto con Inzaghi premia di gran lunga il tecnico scelto da Thohir. Mancini è un esteta, un uomo che ama il bello, nella vita e in campo, dal suo arrivo si è imposto di "insegnare" all'Inter a giocare, senza paura, senza il timore di incappare in errori.
Se mancano i risultati, non mancano i propositi, perché l'Inter, a tratti, è piacevole. Il secondo tempo della stracittadina è quanto vuol vedere per l'intero arco del match Mancini. Occasioni, rapidità, verticalizzazioni, manca la punta dell'iceberg, manca il colpo da K.O, per tanti motivi. Banti sbaglia qualcosa, gli avanti nerazzurri peccano in precisione, il pezzo di bravura di Icardi chiude la partita, ma grazia Diego Lopez.
Nel nulla attuale, l'Inter c'è. Gnoukouri è la scommessa del Mancio, la sorpresa che sconvolge in parte l'ordine prestabilito, il colpo di teatro che ammalia personaggi come Mancini. E il giovane non perde campo, anzi. Azzardo spinto dalle assenze, un grido d'allarme in vista del centrocampo del futuro, forse un semplice innamoramento del Mancini tecnico per un talento da coltivare. Tante le possibili spiegazioni di un lancio a sensazione.
Il mercato in panchina fa riflettere, ma Santon e Shaqiri sono pezzi dell'Inter del futuro, lo dimostra Shaq quando mette piede in campo, semplicemente Mancini sceglie chi ritiene più pronto o più opportuno al momento, senza preclusioni o vantaggi. Kovacic dal via è un'investitura, dopo il bastone, la carota. Mancini vede la classe, l'eleganza, in ogni gesto, lavora sul diamante grezzo per estrarne la brillantezza.
Infine, arretrando, si giunge sulla retroguardia. Vidic è un totem, non è quello di Manchester, altrimenti vestirebbe divise oggi più prestigiose, ma ha esperienza, carisma e conosce il gioco. Al centro non sfigura, mai. Ranocchia, più protetto, può vestire i panni del capitano, Juan, a sinistra, è meno dannoso. Mancini fa una riga sulla sua iniziale Inter, rinuncia in parte alla spinta sugli esterni in nome dell'equilibrio, almeno fino al termine della stagione. Lì è attesa la rivoluzione.
L'Inter ha qualcosa su cui lavorare, una tela su cui dipingere, incrementando colori e pennelli, l'artista, in panchina, ha visioni d'insieme da coltivare. Ecco perché Thohir, anche nel fallimento odierno, ha un motivo per sorridere, più di Berlusconi, più di Galliani.