Rodrigo Palacio non indossa la casacca numero 9, porta un atipico 8. Un tempo, quando i numeri nel calcio avevano una logica, il numero 8 identificava il centrocampista, l'uomo di riferimento in mediana a cui spettava il compito di dirigere le operazioni e inserirsi in zona gol. Nel moderno mondo del pallone, non ci sono più regole. Numeri in doppia cifra hanno invaso merchandising e campo. Ma resta per identificare la prima punta il n.9, che Palacio non è e non indossa. Costretto a fare la prima punta, lui che prima punta non è. Da condizione e paura. Gli infortuni di Icardi e Milito hanno costretto Mazzarri a rifugiarsi nel modulo più coperto, supportando Palacio con Guarin prima e Alvarez poi. Quando nel primo tempo il Trenza, dopo l'ennesimo scatto a dettare il passaggio ai persi compagni, ha sbagliato il controllo, anche l'Olimpico si è risvegliato in un “oh” di stupore. La fatica si è palesata sul volto e sul fisico del generoso argentino, che da settembre tira la carretta e guida la squadra.
Mazzarri ha capito e al rientro dal riposo, a cavallo tra le due frazioni, ha mandato a scaldare Milito, e lì il boato è stato forte, ridondante. La curva nerazzurra ha visto nel Principe il ricordo di un'epoca sbiadita di trionfi e trofei. Lui sì, Diego Milito, è una prima punta. Uno che a buon diritto può essere identificato col n.9. Anzi, al top, uno dei migliori numeri 9 d'Europa. Non poteva incidere ieri, in uno scampolo di gara, dopo mesi passati tra infermeria e riabilitazioni. I muscoli di cristallo richiedono cautela. Manca il campo, l'atmosfera, da battaglia. Lo sa l'Inter, che lo attende come il salvatore, di se stessa e di Palacio. Non sempre un tacco meraviglioso può illuminare una serata buia.
Non se l'è sentita di osare Mazzarri nella Roma resa incandescente da Lotito. Tra Zanetti e Kovacic, ha scelto Kuzmanovic. Il male minore, la versione intermedia. Tra la quantità e la qualità, ha preferito un po' dell'una a e un po' dell'altra. Ha scelto di non scegliere, sperando che il refolo di ottimismo portato dal serbo nel derby, si trasformasse dopo la sosta in scossa importante. Non è successo. L'Inter del primo tempo ha condotto una partita anonima, rischiato non più di tanto, creato nulla. Se viene a mancare l'apporto di talento di Alvarez, la nebbia offusca la manovra nerazzurra. Non sempre la tecnica attendista paga. Non sempre, rivoltare l'undici, come un guanto, a squadre stanche, paga dividendi. La Lazio ieri era più in apnea dell'Inter e Mazzarri ha assaporato un altro sgarbo, come nel derby. Sbilanciarsi, con giudizio, al momento opportuno.
Sembrava la scelta giusta. La crescita di Jonathan e Nagatomo aveva spostato la bilancia della partita nella metà campo della Lazio. Ma poi ci sono i numeri 9, che numeri 9 sono. Klose, che sulla schiena ha disegnato il numero 11, lo è, di razza. Rapace, ha visto Candreva, ne ha letto intenzioni e traversone e si è avventato davanti all'agnello Ranocchia. Destro al volo e aquila in volo. Mani nei capelli, a terra, il difensore beffato, che incarna l'immagine dell'Inter. I grandi giocatori sono tali, perché hanno poche occasioni e quelle poche occasioni le fan fruttare come nessuno. Per tanti minuti, ottanta circa, Klose era stato solo, isolato. Un po' come Palacio. Ma a lui un pallone è arrivato. A Rodrigo, che indossa il numero 8 e non è un 9, no.