“Give me five”. Marquez celebra l’impresa con casco, maglietta e capriole di rito: l’harakiri Yamaha ha messo il quinto titolo in ghiaccio. Bravo davvero il piccolo diavolo mitigato dal tempo, maestro del rischio ponderato nel giorno e nell’anno in cui i rivali hanno imboccato la parabola inversa. Perfetta la sua stagione: alla fine ha prevalso l’interpretazione olistica, l’affresco globale e chi ha saputo assemblarlo con sapienti tocchi di pennello, dipingendolo nella propria mente prima ancora che in sella.
È stato il mondiale delle identità scambiate: Marc capace di cinque acuti senza stendersi mai, la coppia Rossi-Lorenzo titolare di altrettanti successi ma con tre cadute per parte. Lui pokerista di razza, chirurgico nel dosare gli assi e mai azzardando oltre il lecito; loro, i “prostiani" smarritisi nell’eterna, vana rincorsa di un’ombra fuggevole, vinti dalla frenesia della rimonta ancor prima del tempo.
Soprattutto Valentino, stangato crudelmente al Mugello dal motore in fumo ma altresì incapace di frenarsi, di sondare i limiti propri e delle infide Michelin, franando come un pivellino qualunque nella polvere di Austin, Assen, Motegi. Sempre allo stesso modo, sempre in qualche modo pressato dal fantasma di Marquez.
Una triplice colpa, un triplo peccato perché un Rossi così lo attendevamo da anni, mattatore e gladiatore, appeso solo ai suoi destini e non alle ruote altrui, capace di giocarsela vis-à-vis coi più freschi avversari. Libero di fare e, ahimè, disfare, Vale ha incarnato il rovescio tattico del quasi-campione 2015, ne è stato l’alter ego anabolizzato ma scomposto, rapido quanto basta e forse anche troppo, incapace di gestire l’energia vitale della sua eterna giovinezza.
Perciò il gong precoce di Motegi suona come un inno beffardo allo spreco e si presterà facilmente agli immancabili “de profundis” dei suoi detrattori: è vecchio, non regge la tensione, non vincerà più. Contro un simile “Marcziano” appena 23enne sarebbe pure lecito supporlo. Ma se da un lato Motegi rafforza l’idea che Vale abbia pagato uno scotto nervoso brutale all’epilogo della passata stagione, dall’altro pone interrogativi validi per inquadrare gli equilibri della MotoGP in chiave presente e futura.
Yamaha è ancora la moto di riferimento? E quanta parte di merito ha la bistrattata RC213V nel pokerissimo di Marquez? Al proposito si può senz’altro affermare che la M1 resti il compromesso tecnico d’eccellenza, il mezzo versatile buono per ogni occasione, così com'è d'obbligo riconoscere nello spagnolo un valore aggiunto inestimabile al bilancio dell’Ala dorata.
Ma anche i numeri parlano: il team di Iwata non vince da 8 gare, pur contando su due dei tre top rider al mondo; Honda, viceversa, ha ottenuto 8 vittorie in stagione, in condizioni climatiche disparate e con quattro diversi piloti, ufficiali e privati (Marquez, Pedrosa, Crutchlow e Miller), circostanze che confermerebbero quantomeno una certa bontà della base tecnica a prescindere dal fattore umano. E allora?
La verità, come al solito, sta in mezzo: Yamaha resta un cavallo di razza ancora potenzialmente vincente, ma Honda ha scalato rapidamente il gap elettronico accusato ad inizio stagione per via della centralina unica e, proseguendo sullo slancio, si candida a opzionare la prossima stagione, forte di risorse senza pari e del suo Marquez “totale”. Questo deve temere Rossi, più di Lorenzo in Ducati, più di se stesso.