Quanto dura un abbraccio? Una frazione di secondo, un minuto o un'eternità. Ci sono strette fitte che si staccano dal tempo, si isolano dal contesto in cui vivono gli uomini ma durano attimi, momenti in cui la vita trasloca davanti agli occhi. Nelle notti d'estate gli abbracci diventano freddi, immobili, trasudano ansia come nella notte dell'11 Luglio 2006. "Fabio senti ma se Grosso fa gol abbiamo vinto il Mondiale?", una domanda che si ripete ogni cinque secondi. La ascolta Fabio Cannavaro, capitano della Nazionale, la pronuncia colui che ha aperto la lotteria dei rigori di Berlino e ha segnato. La pronuncia Andrea Pirlo. 

Sono passati undici anni da quell'abbraccio eterno diventato, poi, corsa infinita perché Grosso quel rigore l'ha segnato. Undici anni dopo è tempo di abbracciarlo ancora Andrea perché le domande sono finite, c'è solo una risposta che suona più o meno così: basta. Pirlo dice addio al calcio giocato senza troppe cerimonie, classico finale di un uomo che in campo ha preferito far parlare i piedi che altro, ringraziamo il cielo per questo. Descrivere ciò che è stato Andre Pirlo è qualcosa di facile e, allo stesso tempo, tremendamente difficile perché ogni aggettivo sarebbe riduttivo al cospetto di cotanta classe e genio iniettati in un sol uomo. E' difficile, come detto, ma allo stesso tempo facile perché basta ascoltare una delle sinfonie di Beethoven, chiudere gli occhi e pensare che quella dolce musica sia l'effetto di un pallone che va dove vuole lui.

E' sempre stato così nella sua carriera, una polaroid a colori diversi in cui racchiudere mille istantanee come il lancio millimetrico per Baggio in un Juventus-Brescia, la parentesi all'Inter, l'epopea milanista e lo sbarco alla Juventus. Pirlo non è stato il simbolo di una squadra ma di tutto il calcio italiano e non, un giocatore uno e trino capace di deliziare palati fini di compagni, tifosi e avversari come quelli che innumerevoli volte si sono alzati in piedi per applaudire qualcuno che passa una volta ogni cento anni, forse uno come lui mai. La capacità di essere perfettamente geometrico, essere allineato a un contesto che non è il suo per poi calarsi nella giusta dimensione. Pirlo non ha solo giocato a calcio, Pirlo ha dispensato e insegnato calcio creando corridoi, traiettorie sconosciute all'occhio umano.

L'essere sempre geometrico lo ha contraddistinto, l'apparente mancanza di emozioni sul suo viso l'ha reso celebre, a tratti invulnerabile come le sue punizioni sentenziali che lasciavano briciole e vento ai portieri. La sfrontatezza, le lacrime e il cucchiaio negli Europei 2012 all'Inghilterra per caricare i suoi. L'abbraccio mistico con Xavi al termine della sfortunata finale di Berlino con la maglia della Juventus, in quell'abbraccio c'è tutta la perfezione del calcio moderno, la capacità di capire un movimento prima che esso si realizzi, l'irrefrenabile impulso di guardare oltre la siepe, oltre qualcosa che l'occhio umano non riesce a percepire neanche con la lente di ingrandimento.

Una questione di millimetri, questa è stata la carriera (definirla cosi è riduttivo) di un mago come Andrea Pirlo. Una sinfonia sulla follia durata ventitré anni ma adesso è giunto il momento di smettere di suonare e questo silenzio stordisce un po' tutti noi. Noi che non siamo più bambini, noi che abbiamo perso anni di vita in quell'assist per Grosso a Dortmund undici anni fa, noi che abbiamo ripetuto a nostro padre e a nostra madre quella fatidica domanda: "Ma se segna Grosso abbiamo vinto?". E' tempo di riporre il violino nel cassetto Andrea, è tempo di sorseggiare un po' di quel buon vino e riguardare in loop le sinfonie con cui hai deliziato i nostri occhi, noi accecati dal bagliore della tua classe infinita. Grazie Maestro. 

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About the author
Alessio Evangelista
Mi chiamo Alessio Evangelista, sono nato e tutt'ora vivo a Pescara in Abruzzo. Mi sono diplomato quest'anno presso l'ITIS A.Volta di Pescara con la votazione di 80/100. Le mie passioni sono il calcio e la Formula 1