La Juventus ha perso per la settima volta una finale di Champions League. Ajax, Amburgo, Borussia Dortmund, Real Madrid, Milan, Barcellona, ancora Real Madrid: sono questi gli ostacoli che sono risultati fatali, negli ultimi 44 anni di storia europea bianconera. Dal gol di Johnny Rep, a quello di Asensio, passando per Felix Magath, Mihajtović, Suarez, Neymar… sono tutti solchi, graffi profondi di un passato, più o meno recente, che stanno ammalando, o forse lo hanno già fatto, il sistema nervoso della Juventus.
È palese, perché la Juve che ieri sera ha perso per 4 a 1 a Cardiff, non era la Juve di Massimiliano Allegri. Non era la Juve che è riuscita ad ingabbiare totalmente squadre come il Barcellona, non era la stessa Juve che ha devastato domenica dopo domenica il nostro campionato. E neanche quella che in 10 gare di Champions League era riuscita a portarsi in finale senza avere subìto nemmeno un misero gol su azione.
Chi ha il coraggio di dire che quella di ieri sera era la squadra allenata da Massimiliano Allegri, alzi la mano per primo. Tutta la sicurezza, la maturità mentale e tattica, l’equilibrio, la fantasia, la concretezza, il pragmatismo, l’intelligenza, quando, dove li abbiamo potuti osservare? La squadra talmente solida, unita, e coesa da sembrare di non aver punti deboli, era davvero quella in campo ieri sera a Cardiff? No, non lo era. Sul prato del Millennium Stadium non vi era una squadra, ma una preda. E sapete quando si diventa prede? Quando si ha paura del predatore.
Il Real Madrid di ieri sera aveva un arsenale di armi devastante, una rosa vertiginosamente tecnica e qualitativa, pullulante di campioni affermati e pluripremiati a livello intercontinentale. I Campioni in carica di Spagna e d’Europa partivano indubbiamente da favoriti, ma di certo non erano imbattibili. Così come Achille, anche il Real aveva il proprio tallone (anzi, se vogliamo più d’uno), ma la Juve non ha mai cercato di ripetersi veramente in Paride: sulla voglia di raccogliere quella piccola, ma esistente possibilità di risalire sul tetto del calcio mondiale, ha prevalso la paura di non farcela. Dopo un buon inizio di gara, caratterizzato dal vantaggio di Ronaldo e dal pari di Mandzukić, le ferite del passato hanno cominciato a riaffiorare. Nel secondo tempo i blancos, che di fame non moriranno mai, iniziano a sentire odore di sangue. È qui che la Juve diviene preda brancolante nel buio, è qui che perderà ancora una volta la finale di Champions League.
Chi parla di maledizione mi fa sorridere. Le maledizioni non esistono. Esistono le azioni, che caratterizzano i momenti, che a loro volta vanno ad imprimersi come inchiostro indelebile sulle pagine della storia di questo sport. Purtroppo la Juventus non è riuscita a superare le proprie paure, non è riuscita a sbloccarsi, a liberarsi dalla morsa del timore di un mancato raggiungimento finale. Sui libri di storia rimarrà invece questo strabiliante 1-4 per il Real Madrid di Zidane, che va a registrarsi invece come la più clamorosa, ampia, e incontrovertibile sconfitta di tutti i tempi, in una finale di Champions League per la Juventus.
E stavolta fa male per davvero. Sia considerando la recente evoluzione juventina, sia considerando l’avversario in questione, rispetto all’ultimo insuccesso bianconero di due anni fa. La Juventus ha cambiato completamente pelle dalla volta di Berlino, con le cessioni dei vari Vidal, Pogba, Pirlo, e Morata, e con gli innesti di Khedira, Pjanić, Dybala, Higuaìn, Alex Sandro e Dani Alves. Un gruppo meno fisico, ma estremamente tecnico, qualitativo, e finalmente dotato di uno dei centravanti più decisivi del pianeta Terra. Gruppo che in effetti, assemblato magistralmente da San Max Allegri, ha ridotto il gap con le big d’Europa, come dimostrato nel doppio confronto primaverile contro il Barcellona, preso a calci allo Juventus Stadium, e tenuto comodamente a guinzaglio al Camp Nou. Ma evidentemente manca ancora l’ultimo pezzo del puzzle: sebbene questa Juventus fosse strutturalmente molto più pronta per affrontare una finale di Champions League, rispetto alla versione antecedente, sono state la fermezza e l’imperturbabilità d’animo richieste da eventi di tale portata ad aver giocato ancora una volta un ruolo da contraltare.
Già, perché questo Real non era il Barça degli alieni di due anni fa. Questa volta c’era la sensazione di potersela giocare, anche se non ad armi completamente pari. Ed è per questo che fa male uscire dal campo con un’umiliazione simile, dopo tutti i netti progressi conseguiti negli ultimi tempi. Alla fine, a conti fatti, la Juve “operaia” di due anni fa restò in gioco sino all’ultimo minuto, quando Neymar sentenziò il discorso al novantesimo; mentre la Juve “pronta” è stata brutalmente calpestata sotto i colpi di un avversario ben diverso.
A questo punto resta un enorme senso di vuoto e di impotenza, oltre a tanta delusione e ad un pizzico rabbia, per una presa mollata troppo presto, per il non essere rimasti uniti qualche secondo in più, ad un centimetro dal paradiso. Le maledizioni non esistono, siamo noi e le nostre azioni che disegniamo il corso degli eventi e del nostro destino. In virtù di ciò, voglio credere che da domani si riparta al massimo, per rifare il giro daccapo, per arrivare un’altra volta davanti al traguardo, e tagliarlo insieme una volta per tutte. Stavolta, fino alla fine.