Il mondo del ventunesimo secolo ha spaventato gli uomini più e più volte. Sono crollate le loro certezze, le loro fragili sicurezze che il '900 aveva costruito sul sangue e sui cadaveri degli eroi. Il passaggio dagli anni 80-90 ai primi anni duemila è stato quasi uno shock: telefonia mobile, macchine supersoniche, connessione internet su scala mondiale.
La velocità è diventata una costante della nostra vita, nel bene e nel male, impedendoci di cogliere gli attimi veri per quello che sono. Ma la velocità è anche sinonimo di 'cecità inconsapevole', e per l'uomo la perdita di ogni certezza è forse la più grande delle catastrofi.
Ma se alzassimo, prima o poi, il piede dall'acceleratore della nostra vita e ci guardassimo intorno, troveremo di fianco a noi un uomo. Un uomo dal carattere semplice, schietto, diretto. Un uomo che si è fatto tutto il viaggio seduto accanto a noi nella macchina supersonica della nostra società. È un uomo sulla trentina, o forse più, non saprei dirlo. Porta i capelli corti, se li è accorciati progressivamente durante il viaggio, diceva di sentire troppo caldo. Indossa una maglia giallorossa e ha un pallone da calcio in mano, di quelli vecchi e scuciti. L'uomo mi guarda, accentua un sorriso e mi invita a fermare la macchina supersonica. Scende dall'auto e inizia a palleggiare col suo pallone malconcio. Ha un'armonia nei movimenti difficilmente descrivibile, ma d'altronde da quando è arrivato ne sono cambiate di cose. È arrivato l'euro, insieme a Google e a tante altre cose (tra cui la Play Station ad esempio). La sua presenza è una costante da circa un quarto di secolo, ma è servito alzare il piede da quel maledetto acceleratore per capire che lui era lì, al nostro fianco, da 24 anni circa, e non ha la minima intenzione di abbandonarci. Signore e signori, l'unico uomo in grado di far fermare la nostra macchina supersonica è stato 'sór Francesco', che di macchine ne ha guidate tante, ma riesce ancora a farci emozionare come poche persone su questo pianeta impazzito.
Ogni essere umano ha le sue dipendenze, i suoi vizi più o meno deprecabili. Non sono semplici scheletri racchiusi in chissà quale armadio, il più delle volte sono icone, simboli che nutrono le passioni. Chi ne fa uso, spesso, non ne riconosce l'effettivo valore, accecato com'è dal significato mistico e spirituale di ciò che la dipendenza stessa rappresenta. Il cibo, il denaro, le auto di lusso, le donne. In ogni parte del globo, nell'animo di ogni uomo, prevale una di queste costanti, che vengono fuori in maniera brutale, schiavizzando l'uomo stesso e portandolo ai limiti della propria esistenza.
A Roma, tuttavia, hanno intrapreso un'altra strada. Hanno scelto di venerare qualcosa che i comuni mortali non potranno mai comprendere. Hanno scelto di dare la loro anima per una maglia numero 10, che ha sempre qualcosa di fascinoso, ma è pur sempre un pezzo di stoffa. Ma se quella 'numero 10' finisce per caso sulle spalle di un ragazzino, che ha esordito tra i grandi circa 24 anni fa ed è ancora lì, a calcare i campi di tutt'Italia, allora il rapporto tra una città e il suo 'numero 10' assume i connotati di una venerazione mistica.
Francesco Totti sta a Roma come il papa sta alla Chiesa Cattolica. Francesco Totti sta al calcio come una madre sta ai suoi figli. Perché ormai 'Er Pupone' è anche questo, ma nessuno lo ammetterà mai. È diventato il santo protettore di una comunità intera, accompagnandola attraverso le sue gioie e i suoi dolori.
La sua presenza è ingombrante quanto indispensabile, necessaria quanto superflua. Tra i suoi piedi saranno passati migliaia di palloni, più o meno scuciti, ma siamo sicuri che Francesco Totti li abbia accarezzati tutti quanti con la stessa cura, con la stessa morbidezza e con la stessa passione. Ma siamo anche sicuri che se per caso dovessimo decidere di riprendere la nostra auto e continuare ad accelerare, lo troveremo lì, seduto di fianco a noi col suo pallone malconcio in mano. Avrà la barba più lunga, qualche capello bianco in più e qualche ruga che non guasta mai. Ma siamo anche sicuri che riuscirà a farci fermare di nuovo, perché sono pochi gli uomini capaci di interrompere gli ingranaggi impazziti del ventunesimo secolo. E sono proprio quelli gli uomini da ammirare e osservare, perché la loro presenza ha costruito ciò che possiamo dire di essere. Ora, adesso, tra cent'anni.