Per il terzo agosto consecutivo e il sesto negli ultimi sette anni, il calcio italiano si lecca le ferite inferte dal preliminare di Champions League. Da quando la Serie A ha perso il quarto posto nella massima competizione europea, ovvero a partire dalla stagione 2011/12, prima annata di campionato con soli tre posti validi per l'accesso, è accaduto solamente una volta che, al sorteggio di fine estate della fase a gironi, fossero presenti tutte le rappresentanti dell'Italia: nel 2013, quando il Milan superò il PSV Eindhoven. Negli altri casi ad accompagnare la Juventus è sempre stata presente una ed una sola squadra. In questo senso i bianconeri fanno discorso a parte, specialmente negli ultimi due-tre anni, avendo ampiamente dimostrato di poter essere una candidata credibile alla vittoria.
La scontata domanda naturalmente da porsi è: il preliminare di Champions League è uno scoglio così insormontabile? La risposta è altrettanto ovvia, un secco no. Semplicemente, basterebbe adeguare la preparazione estiva. Eppure la questione atletica non sembra assumere un ruolo particolarmente rilevante all'interno della ricerca; sembra piuttosto un condizionamento psicologico, quello che sta bloccando le nostre squadre Italiane. Quasi una mancanza di certezze, di scarsa fiducia nei propri mezzi, con ripercussioni dirette su tutto il corso della stagione: difficilmente chi ha fallito gli appuntamenti europei estivi è stato in grado di riscattarsi durante la stagione. Vedasi la Lazio della stagione scorsa, o piuttosto il Napoli di due anni fa, per non parlare della Sampdoria, retrocessa nella stagione iniziata con la rimonta subita dal Werder e la porta chiusa in faccia in Champions.
Il discorso si lega a stretto filo con la mancanza di una vera e propria mentalità europea del calcio italiano di oggi. Tecnicamente è lecito attendersi che le squadre che vivono in quel limbo di classifica compreso tra il primo e il sesto posto, cerchino di arrivare fino in fondo all'Europa League, una competizione decisamente più abbordabile per tutte le nostre compagini, le quali riescono puntualmente ad arrendersi sul più bello contro squadre spesso inferiori, oppure rimediando dolorosi schiaffi quando incontrano le cosiddette altre big. Un progetto impostato per ben figurare in Champions basa le proprie radici in Europa League, ma solo se approcciata nel modo giusto. Nella maggior parte dei casi le italiane affrontano le partite con ampio turnover, lasciando a riposo i giocatori principali (altro problema, la cultura di un undici base con riserve inadeguate) anche nelle partite più importanti.
Questo non è un modo per creare una mentalità europea all'interno di un gruppo, ma l'esatto opposto. Per puntare in alto, bisogna sempre iniziare dal basso. La campagna europea dell'anno scorso della Roma, terminata agli ottavi dopo un imbarazzante secondo posto nel girone, non ha evidentemente insegnato nulla ad un gruppo che si è ripresentato ai nastri di partenza palesando gli stessi limiti mentali, gli stessi peraltro emersi nella primavera del 2015, quando fu la Fiorentina a sbatter fuori i giallorossi dall'Europa League in un derby tutto italiano.
I giallorossi erano in seconda fascia al sorteggio, dietro a "corazzate" quali l'Ajax di oggi, il Borussia Moenchengladbach, addirittura il Monaco che fino a pochi anni fa militava in Ligue 2, il Porto stesso. Il motivo? Una posizione bassissima (43esima, al momento), peraltro con l'Inter subito alle spalle, ma con la sostanziale differenza che negli utlimi anni i nerazzurri in Europa non sono una presenza costante.
Indurrebbe però in errore pensare che lo 0-3 di ieri sera sia un crollo riguardante solo la Roma: la disfatta è la punta di un iceberg composto da tutto il calcio italiano, sotto ogni minimo aspetto. Fino a un paio di anni fa si parlava di crisi profonda del sistema, poi d'improvviso la campagna della Juventus in Champions ne risollevò le sorti, così come l'esperienza della stagione scorsa. La realtà è che al momento la Juventus non sembra aver nulla da spartire con tutti gli altri club dello stivale, sia in quanto a fatturati che in quanto a prestigio europeo. E soprattutto, un club deve essere il precursore, ma tutti gli altri devono seguirlo a ruota: finchè una sola rappresentante italiana ha successo fuori dai confini, è immensamente sbagliato parlare di crescita di tutto il sistema. Non è nemmeno un caso che l'unica squadra negli ultimi sette anni in grado di passare i gironi sia stato il Milan, tradizionalmente avvezzo alle competizioni continentali.
La stagione che attualmente si para davanti ai nostri occhi permetterà all'Italia di contare probabilmente su quattro squadre in Europa League, salvo disastri del Sassuolo; Roma, Inter e Fiorentina sono invece certe di trovarsi nell'urna. Il paradosso al quale rischiamo di trovarci di fronte è che la meno quotata tra le quattro per un eventuale successo finale sarà colei che punterà maggiormente sulla competizione, che privilegerà le sfide europee rispetto a quelle Nazionali. In quanti, nel nostro paese, iniziano la stagione ponendosi come obiettivo vincere l'Europa League? Nel ranking europeo alle nostre spalle incalzano Francia e Portogallo, le quali sono riuscite entrambe a portare tre rappresentanti ciascuna in Champions. Noi, a bocca asciutta, ancora una volta. Senza imparare dagli errori, senza seguire gli esempi giusti, senza incanalarci in quella strada verso il rilancio di un calcio sempre più in fondo al pozzo, che sembra sperare in un salto decisivo per uscirne, ma non calcola la possibilità di arrampicarsi sulla parete, passo dopo passo.