Rosario è il capoluogo della provincia di Santa Fè, 300 km circa da Buenos Aires, capitale dell'Argentina. Non un posto qualunque, visto che da Rosario arrivano alcuni personaggi tutt'altro che banali: Lionel Messi, ad esempio, per molti il più forte calciatore in circolazione. O Ernesto "Che" Guevara, uno che nel continente sudamericano ha avuto un impatto politico e culturale che va ben oltre i confini dello sport. Ma di Rosario è originario anche il nuovo allenatore della Lazio: Marcelo Bielsa. Beh, definirlo allenatore è riduttivo, forse. Bielsa è più un guru, una specie di santone. Uno che lo ami o fatichi a capirlo, uno che se riesce ad insinuarsi nell'anima della squadra sicuramente non ti annoierà.
Certamente non un vincente, se ci fermiamo a guardare il palmarès. Ma allora perchè gente come Zanetti e Crespo, due che qualcosa hanno vinto, non perde occasione di menzionarlo nella top 3 degli allenatori con cui ha lavorato? Eppure con la Selecciòn non è che abbia lasciato il segno: un Mondiale 2002 interrotto già nella fase a gironi, nonostante una nazionale che dalla metà campo in sù faceva paura, e una clamorosa rimonta dal Brasile nella finale della Copa America 2004, in una partita già vinta.
Bielsa è il profeta del 3-3-1-3, di cui probabilmente possiede il copyright. Qualcuno dice che è lo Zeman del Sudamerica, ma sarebbe riduttivo. Perchè Bielsa non somiglia a nessuno. Bielsa è semplicemente uguale solo a se stesso. Il suo 3-3-1-3 è applicazione, ma non esasperazione dei dettami del modulo. E' l'esaltazione del concetto di qualità al potere. Non per niente l'icona del suo Cile, che si farà apprezzare ai Mondiali 2010 e che sarà la base di quello bello e vincente dell'ultimo Mondiale e della Copa America 2015 (che solleverà al cielo sotto la guida di Sampaoli) era Jorge Valdivia, un altro loco, simbolo per antonomasia del concetto di fantasia.
Bielsa costruisce e Sampaoli va a vincere. Non è una cosa che si verifica una sola volta nella carriera del Loco. Perchè il suo concetto di vittoria va al di là del trofeo sollevato al cielo. La sua vittoria è impiantare una mentalità nella mente dei suoi giocatori, è trasferire il suo concetto di calcio nella filosofia del club. Come quando l'Europa si innamorò del suo Athletic Bilbao, che divenne metafora del suo calcio. Era l'Europa League 2011, i biancorossi erano la squadra che giocava meglio in Europa, era il punto più alto della carriera europea del rosarino. Poco importa, poi, se in finale venne travolto 3-0 dall'Atletico Madrid. Lo dicevamo prima: la vittoria, per lui, non è semplicemente alzare un trofeo. E quel Bilbao aveva lasciato un segno.
Loco, come quando al Newell's Old Boys si arrampicava su un albero per seguire meglio gli allenamenti, interrompendo la seduta quando si alzava il vento e i foglietti degli appunti volavano via. E in Argentina capivano che non era solo Loco, perchè divertiva e vinceva pure: Apertura '90 e Clausura '92.
Fedele ai propri principi, come quando, reduce dall'ottimo percorso alla guida della Nazionale cilena, rifiutava la corte di Moratti e la possibilità di allenare l'Inter campione del mondo, perchè aveva dato la parola all'Athletic Bilbao. Già, perchè in un mondo in cui denaro e successo sono preponderanti, Bielsa preferì mantenere la promessa fatta al candidato presidente dei baschi.
Ma anche vulcanico, visto che mantiene la parola data, ma non accetta che non venga fatto lo stesso con lui. Come a Marsiglia, poche settimane prima di lasciare i francesi, anche loro stregati dalla singola e abbagliante stagione francese del Loco. Arriva in conferenza stampa, gli chiedono se esiste la possibilità che possa rimanere e lui snocciola la lista della acquisti promessi e non mantenuti dalla proprietà del club francese.
Contratto annuale, come a Marsiglia, e una sensazione netta: in Italia non passerà inosservato. Verrà amato o incompreso, i giornalisti impazziranno a star dietro alle sue conferenze stampa monosillabiche. E poi: ce lo vedete uno così a lavorare con Lotito?