Minuto 91 di Genoa-Bologna. Rossettini corregge in porta, con uno stacco imperioso, un calcio d'angolo di Mounier. Ferraris ammutolito e giocatori felsinei che esultano per il gol allo scadere. La partita si appresta a concludersi, dopo il finale concitato, quando l'arbitro Di Bello sventola il cartellino rosso al giovane Diawara, centrocampista 18enne del Bologna.

Il motivo? Semplice, il nostro campione in erba, durante i festeggiamenti per il gol, si è rivolto verso la gradinata mimando il gesto del gorilla. "Ho semplicemente reagito ad alcuni ululati che ho sentito provenire da dietro la porta di Perin", ha dichiarato il guineano. In effetti il regolamento, in questi casi, parla chiaro: il calciatore è tenuto a non rispodere ad alcuna provocazione proveniente dagli spalti. Il direttore di gara ha fatto il suo dovere, ma forse, dietro la reazione impulsiva di un ragazzo classe 1997 non c'è solo l'inesperienza, ma l'ennesima sconfitta morale del calcio nostrano.

Sia chiaro, di critiche al mondo del pallone ne sono state fatte tante (e probabilmente se ne faranno ancora) ma se certi episodi si ripetono il discorso va necessariamente generalizzato. La nostra società, sempre più progredita e globalizzata, definisce l'uomo come "un essere in relazione con", forse questo concetto va un po' rivisitato. Nel gesto del giovane Amadou è racchiusa la volontà di ribellarsi alla segregazione mentale imposta dal sistema. Tanti altri campioni (ben più navigati di lui) hanno avuto una reazione più o meno simile: chi mangiando una banana (Dani Alves in Vilareal - Barça) chi addirittura tentando di abbandonare il terreno di gioco (Zoro in Messina-Inter del 2005).

Ognuno di questi uomini si è sentito ferito, spogliato della propria identità da alcune decine di facinorosi che stanno tentando, da qualche anno a questa parte, di distruggere secoli di progresso sociale. L'episodio di sabato sarà, probabilmente, catalogato come l'ultimo dei tanti, ma forse è il caso di fermarsi un attimo e pensare. Occore guardarsi allo specchio per capire che per l'ennesima volta il pallone ha perso, la nostra società ha perso, il nostro mondo ha perso. Sarò pessimista, ma è la cruda realtà.

Il razzismo ha invaso, oramai, i confini del rettangolo verde mischiandosi pericolosamente con una dimensione ad esso totalmente estranea. Già, perchè il mondo dello sport non ha nulla a che vedere con certi argomenti. I valori, le emozioni e le sensazioni che il gioco porta in seno sono l'antidoto migliore per determinate situazioni. Eppure, il problema esiste (non possiamo negarlo) e continuerà a perdurare trovando terreno fertile tra le menti ottuse e malate dei capostipiti delle nostre organizzazioni. Probabilmente nessuno di questi "criminali" conosce a pieno il percorso storico-sociale che si cela dietro il tabù della separazione razziale, parleremmo pertanto di incoscienza e ignoranza, ma l'essere umano non è mai banale  e, dietro un sottile velo di sconsideratezza, si celano probabilmente sagacia e un pizzico di malizia.

Basterebbe poco per debellare questa malattia, d'altronde sono solo poche decine di persone, ma l'esempio deve necessariamente venire dall'alto. Siamo tutti stanchi di vedere scritte le medesime cose, ma ad ogni azione segue una reazione e presto o tardi questo circolo vizioso porterà il mondo del calcio (prima) e la nostra società (poi) alla distruzione. Mediti il sig. Carlo Tavecchio quando parla di Opti Pobà, mediti chiunque si diverta a lanciare banane negli stadi. Basta poco per uscirne, ma potrebbe essere troppo tardi.