La Palestina sarà costretta a disputare le prossime gare di qualificazione ai Mondiali di Russia 2018 in campo neutro. E' questa la decisione che la Fifa ha preso dopo aver consultato le autorità palestinesi in merito alla sicurezza delle strutture che avrebbero dovuto ospitare l'evento. In effetti la decisione dell'organo preposto non sembrerebbe destare scalpore visti i duplici attacchi di inizio Ottobre sulla striscia di Gaza, così intensi da far pensare all'inizio di una terza "intifada", ma c'è da domandarsi quanto ancora una volta le vicende calcistiche siano state influenzate dalle scelte politiche e dai giochi di potere.

Nel 2006 il "Palestinian National Football Stadium", sito a Rafah, proprio sulla striscia di Gaza, e fulcro del movimento calcistico palestinese, fu completamente raso al suolo da un raid aereo isrealiano. Disastro ripetutosi nel gennaio 2009 dopo la ricostruzione finanziata dalla Fifa. Da quel momento la nazionale è stata sempre costretta ad emigrare in paesi vicini come l'Egitto, il Qatar o la Giordania: il calcio, una delle poche forme di svago e speranza per bambini che convivono tutt'oggi con il dramma di una guerra inarrestabile, scompare dai territori occupati. Ma il lumicino si riaccende l'8 settembre scorso, quando la Fifa concede alla nazionale Palestinese di giocare per la prima volta in casa le qualificazioni ai mondiali di Russia allo stadio "Faisal al Hussein" di Al Ram, a Gerusalemme est, contro gli Emirati Arabi Uniti. La partita si conclude 0-0: poche emozioni sul piano del gioco ma molta nel cuore di giocatori e tifosi, si riaccende la speranza di poter tifare nuovamente i propri beniamini tra le mura amiche. La decisione maturata ieri è invece un nulla di fatto.

Qualcuno potrà notare una disparità di trattamento. La nazionale Israeliana, che in realtà dovrebbe avere gli stessi problemi a garantire l'incolumità dei partecipanti alla manifestazioni sportive, non ha mai avuto problemi nel disputare tornei nazionali e internazionali: un esempio lampante è il Maccabi Tel Aviv, squadra che partecipa regolarmente all'edizione odierna della Champions League. E' vero che Tel Aviv è relativamente distante dal conflitto, ma prendiamo in esame un altro esempio, quello degli Europei U21 disputati in Israele proprio nel 2013. Ben quattro partite, compresa la finale che vide gli Azzurrini sconfitti dalla Spagna, furono disputate allo stadio "Teddy Kollek" di Gerusalemme, a pochi chilometri dallo stadio che ha ospitato l'ultima gara interna della Palestina. Insomma, un occhio di riguardo. 

E' fuori discussione che un organo che ha il compito di adempiere alla sovraintendenza di uno sport in generale, in questo caso il calcio, dovrebbe lasciare da parte la politica, su tutt'altra lunghezza d'onda. Già nel 1991 la Uefa si schierò apertamente dalla parte di Israele accettando la richiesta di includerla nell'organizzazione nonostante non avesse nè corrispondenze geografiche né facesse parte della UE. Ma gli esempi di "contaminazione" sono infiniti, a partire da quella bonaria di Rimet che istituì la Coppa del Mondo nel 1930 per stemperare le tensioni tra le nazioni, le edizioni della stessa usate come propaganda dei regimi totalitari negli anni sucessivi, il caso Piola e non ultima la decisione del Uefa di impedire che nazioni avversarie impegnate in una guerra comune possano incontrarsi in un girone (Russia e Ucraina). Dall'altra parte c'è anche l'estremismo delle tifoserie, vedi Serbia-Albania e il drone entrato in campo, o la maggior parte dei gruppi organizzati del "Bel Paese" politicamente schierate. Ad ognuno il proprio mestiere: alla politica quello di reggere al meglio il proprio paese, al calcio quello di appassionare e divertire.