Da bambini la distinzione di genere è spesso una, semplice e costante: pallone per i maschietti, bambole per le femminucce. È una “legge” non scritta che ormai si perde nell'alba dei tempi sportivi, fin da quando qualcuno non ha avuto l'idea incredibile di gettare a terra un ammasso rotondo di stracci, per tirargli calci: nasceva così il calcio, le sudate per rincorrere il pallone, mentre le bambine se ne stanno a pettinare i bambolotti.

Come visione limitata del gioco, ci sta tutta. E, in effetti, l'idea generale che si ha del calcio è che sia roba solo per “uomini”: in tv si vedono giocare loro, non le donne; a firmare i contratti milionari è gente con la barba, non quelle “quattro lesbiche”, come ha definito qualche mese fa il Presidente della Lega Nazionale Dilettanti, Felice Belloli, le atlete del calcio femminile italiano: frase che gli è costata l'inibizione per quattro mesi, ma non si fatica a credere che rispecchi il pensiero di molti in quell'ambiente.

Tra smentite, marce indietro e indignazioni generali, il quadro che emerge è quello di un Paese che non presta molto interesse al “calcio in rosa”. Non che servissero necessariamente le parole oscene del numero uno dei dilettanti italiani, ma l'episodio ha puntato i fari per qualche tempo su una situazione che vede il panorama calcistico femminile nostrano costantemente ignorato e deriso. Atteggiamenti che molto spesso se ne fregano della storia che c'è dietro: già negli anni '30, infatti, nacque la prima squadra di calcio femminile, il Gruppo Femminile Calcistico di Milano.

Nonostante si sposasse con l'idea fascista di coinvolgere anche il “gentil sesso” nelle attività fisiche, per formare madri robuste che avrebbero dato alla luce italiani sani e vigorosi, il successo che questa squadra ottenne non entusiasmò il CONI. Per evitare che il fenomeno prendesse piede, impedì allora alle donne di partecipare alle singole partite di calcio, indirizzandole verso altri sport, ritenuti più “consoni”.

Ma fu solo un rinviare il fenomeno: nel '46, a Trieste nascono due squadre di categoria, la Triestina e il San Giusto, e negli anni successivi anche altre città ne seguiranno l'esempio. Ma sarà nel 1965 che un grande club, l'Inter, sosterrà la fondazione di due squadre femminili: Bologna e Inter, entrambe allenate da Valeria Rocchi e formate da ragazze tra ii 14 e i 17 anni. La stampa guarda con curiosità il fenomeno, anche prendendo in giro le atlete, e da lì al 1968 nascerà la Federazione Italiana Calcio Femminile, poi Federazione Italiana Giuoco Calcio Femminile nel 1975 dopo svariati cambi di nome.

Le ostilità contro il suo ingresso nella FIGC, nemmeno a dirlo, saranno tante. Alla fine, nel 1986 perderà la propria autonomia e verrà inserita nella Lega Nazionale Dilettanti, dov'è ancora, con i suoi quattro campionati (Serie A, B, C e D). Nonostante la vittoria dello scudetto consenta di partecipare alla prestigiosa UEFA Women's Champions League, che equivale alla Champions League maschile, il calcio femminile rimane quindi una dimensione dilettantistica.

La situazione italiana, ma anche europea, di questo cosmo calcistico è ben diversa da altre zone del mondo, in primis gli USA: lì, infatti, le squadre femminili sono professioniste, tanto da essere l'obiettivo di tante che sognano un futuro in questo sport (vi ricordate il film “Sognando Beckham”?). Ma anche nel Vecchio Continente non si scherza: la Germania è tra e realtà più affermate, sia con i club che con la formazione nazionale, insieme alla Norvegia, prima vincitrice del Mondiale femminile, svoltosi nel 1988 in Cina.

Adesso il sistema calcio nostrano, gestito da sempre da uomini, sembra voler cambiare le cose: le squadre italiane di Serie A e B dovranno allestire almeno una squadra Under 12, in seguito anche Under 17 e Primavera, e l'obbligo nelle prossime stagioni si estenderà anche ai club di Lega Pro. Una direttiva che ha trovato subito numerose scappatoie, non si sa bene se accettabili o no: alcune squadre faranno affidamento a team già esistenti, altri uniranno più realtà.

Fatte le squadre, però, bisognerà anche cambiare mentalità: allargare momentaneamente il portafogli per zittire chi non accetta più la disparità di sesso non soddisferà nessuno, se poi si continuerà a dividere la torta dei ricavi in proporzioni vistosamente disuguali. Ma prima ancora di parlare di soldi, bisognerà discutere di rispetto: un argomento scottante, soprattutto in Italia, destinato ad accendere polemiche su quello che sembra sempre più un futuro da seguire. Sperando che si inizi a ragionare con la testa e non più con qualcos'altro.