Scindere la storia del calcio italiano con quella del fascismo è impossibile, poiché fin dal suo apice lo spettro del governo di Mussolini pose gli occhi e le mani su quello che sarebbe diventato ben presto lo sport nazionale. Basti pensare ai primi trionfi della Nazionale ai Mondiali, nel '34 e '38, ma ancora prima alla riforma del campionato nostrano.

Centrale per capire la correlazione tra calcio e politica è il saggio “Calcio e fascismo” di Simon Martin, pubblicato dalla Mondadori nel 2006, che mette in luce le ambizioni del regime sul sistema calcistico italiano, ai suoi albori ancora rudimentale e quasi esclusivamente dilettantistico. O almeno sarebbe dovuto esserlo, visto che l'accordo tra FIGC e FIFA del 1904 proibiva casi di professionismo, abilmente arginati dalle società più facoltose.

All'inizio, tirare calci a un pallone non era l'attività preferita del Duce: le cronache dell'epoca riportano il suo interesse per sport più “alti”, come il tennis o il nuoto, ma capì ben presto l'attrattiva che questa attività sportiva esercitava sulla popolazione. E lo capirono anche gli altri esponenti del regime, soprattutto a livello locale, che entrarono nel mondo del pallone da dirigenti o tifosi, mobilitando quanta più gente possibile per sostenere la squadra cittadina o paesana.

Il punto di contatto tra fascismo e calcio arriverò nel 1926, con la stesura della Carta di Viareggio, ossia la riforma pressoché attuale del campionato italiano che trasformò la Divisione Nazionale, l'antenata della Serie A, in un torneo a girone unico. Prima, infatti, le vincitrici della Lega Nord e della Sud si sfidavano per il titolo, con l'esito scontato che a trionfare fossero le prime, meglio organizzate e con più risorse economiche a disposizione.

Nei piani dei firmatari della Carta, ossia gli esperti Paolo Graziani, Italo Foschi e il Presidente del'AIA Giovanni Mauro, c'era la necessità di risolvere la grave crisi che colpì la FIGC nella primavera del 1926: al termine dell'ultimo campionato, caratterizzato dalle "liste di ricusazione" che le società usavano contro i direttori di gara, che all'epoca erano ex dirigenti ed ex giocatori spesso ritenuti di parte, a loro non graditi iniziò una pesante contestazione dei “fischietti” che sfociò in un loro sciopero a oltranza.

Oltre a ciò, furono due i punti principali della riforma: la divisione tra professionisti e non-professionisti, regolando così tutti quei trasferimenti e ingaggi definiti come “rimborsi spese” ma in realtà veri e propri ingaggi; e il blocco degli stranieri, che nel giro di due anni proibì ai club di acquistare e tenere tra i propri tesserati atleti non italiani.

Questa fu una cosa che causò non pochi problemi all'epoca, poiché tante società avevano sotto contratto calciatori della cosidetta “scuola danubiana”, ossia dal Nord Europa orientale, molto in voga all'epoca. Ma sempre chi poteva permetterselo, trovare un escamotagè fu immediato, soprattutto dopo le prime coppe del Mondo: tanti sudamericani nati da genitori italiani tornarono in patria, naturalizzati come oriundi, così che il mito dell'italiano puro di Mussolini non fu contraddetto.

Certo, molto di quel periodo oggi è cambiato: il calcio non è più soggetto al potere di un regime, anche se l'attrattiva che esercita sulla massa è ancora oggi potentissima, se non più dell'epoca addirittura.

I legami con la politica si vedono soprattutto nelle frange ultràs di certe squadre, come del Livorno schierato apertamente a sinistra o quella della Lazio (squadra, secondo alcuni, tifata dal Duce), di estrema destra: da qui nascono anche molte rivalità tra fazioni, che spesso si mischiano a gruppi politici estremisti, fino ad arrivare alle stanze del potere locale, se non addirittura nazionale come hanno messo in luce alcuni passaggi dell'indagine Calciopoli .

Di scritti sul binomio tra la dittatura di Mussolini e lo sport più celebre al mondo se ne trovano a decine, spesso arricchiti di aneddoti che fan pensare, come l'arbitro svedese che cenò con il Duce la sera prima della finale di Roma '34, ma una cosa colpisce: sempre nel libro di Martis, già citato, l'autore rivela che la cesura con il fascismo nel pallone arrivò solo dopo la strage di Superga, nel 1949.

La Seconda Guerra Mondiale era finita da quattro anni, il regime caduto ma ai vertici del sistema sportivo nostrano erano rimasti comunque esponenti o simpatizzanti del fascismo, tanto che ancora oggi riemerge qualche passato abbastanza discutibile su presidenti o ex calciatori. Ma solo dopo la morte del Grande Torino si passò oltre: probabilmente perché il mito del “balilla”, l'atleta modello del regime come fu Meazza negli anni '30, precipitò anche lui in quel disastro. Lasciando dietro di sé il vuoto di un mondo che ormai non esisteva più, destinato ad essere sostituito dal potere del calcio stesso. Che nelle montagne del Piemonte troverà il suo eco più agghiacciante.