Proteste, violenze, corruzione. Sì, il Mondiale 2014 non era iniziato sotto una buona stella, in un Paese, il Brasile, sempre in precario equilibrio sul filo teso tra povertà e crescita, pace e violenza, allegria e tragedia. Aggiungeteci la mancanza di Ibrahimovich, le defezioni di Reus e Ribery, le precarie condizioni di Cristiano Ronaldo e la frittata è fatta.

Perché questo Mondiale, di spettacolo, ne ha offerto ben poco. La tattica del “difesa&contropiede”, più volgarmente detta “catenaccio”, era fino ad oggi prerogativa di brutti, cattivi ed italiani; mentre ora nessuno, dal Mago Van Gaal al vecchio Sabella passando per il triste Scolari, si vergogna di essere marchiato a fuoco dal segno dell’infamia pallonara. Poche, se non nulle, le innovazioni tattiche; sporadiche le partite che hanno regalato vere emozioni. Addirittura, Olanda e Argentina hanno deciso, come direbbe il capitano azzurro Gigi Buffon, che “due feriti sono meglio di un morto”, trascinando così una delle semifinali a più alta concentrazione di talento degli ultimi anni alla lotteria dei rigori. Dimenticandosi però che, quella sera, a morire è stato il Calcio, e forse anche qualche spettatore sopraffatto dalla noia.

Falliscono ancora una volta l’appuntamento alla maturità le squadre africane, vittime di una certa stagnazione dopo la straordinaria nidiata dei Drogba, dei Kalou e degli Etò’o, ormai incamminatisi sulla via del tramonto; ancora peggio però riescono a fare le squadre asiatiche. Dopo la vittoria in Coppa d’Asia e un’incoraggiante Confederations Cup ci si aspettava infatti qualcosa di più dal Giappone di Zaccheroni e Nagatomo, eliminato in un girone di certo non proibitivo.

Anche le outsider hanno deluso. Bosnia e Croazia hanno tradito le –persino troppo- grandi aspettative in patria, ma i rimpianti sono tutti delle attesissime Belgio e Colombia. Non tanto per i risultati, quanto per il modo in cui sono arrivati. Wilmots non ha saputo dare un’organizzazione di gioco apprezzabile a una squadra piena zeppa di talento, mentre gli uomini di Pekerman, trascinati dal gioiellino James Rodriguez, hanno espresso un buon calcio salvo poi sciogliersi sul più bello di fronte a un Brasile non proprio irresistibile.

Già, il Brasile. I verdeoro non sono, come si dice da più parti, una squadra scarsa. I componenti dell’11 titolare (a parte il bistrattato Fred) sono tutti campioni affermati nel palcoscenico internazionale, abituati a sfide di un certo livello e all’adrenalina dei grandi match. Forse, però, questa volta le pressioni erano troppe. La delicata situazione del Paese, la voglia di riscossa dopo qualche Mondiale giocato male. Le accuse di favori arbitrali. A mente tutt’altro che sgombra, giocare come una squadra è impresa impossibile. Poi è arrivata la Germania, e il resto è Storia.

E’ stato, infine, il Mondiale dei flop di Spagna, Inghilterra, Portogallo e Italia.

Ma gli Azzurri, sebbene sbranati a morsi dal piccolo Uruguay, il loro Mondiale l’hanno vinto lo stesso. Si, perché una volta finito il nostro Brasile 2014, abbiamo primeggiato negli sport dove riusciamo meglio: nella Caccia al Capro Espiatorio, nella Dietrologia, nello Scarico del Barile. Giornalisti più o meno affermati, forse scottati dalla recente esclusione dei propri figlioletti dalla squadra di quartiere, se la sono presa addirittura con gli allenatori dei Pulcini; altri invece, abbagliati dal talento cristallino dei gioielli delle canteras d’Oltreoceano come Arevalo Rios, Bolanos e Pereira, hanno puntato il dito contro i settori giovanili italiani; immancabili poi le critiche a Balotelli, alla Figc e alla Serie A.

La verità, sempre che ne esista una, è che l’Italia ha giocato male. Punto. Lasciamo i Pulcini delle società giovanili alle società giovanili e i Polli della Figc alla Figc. Convocazioni discutibili, confusione tattica, gioco povero di idee e poca unità d’intenti: il Mondiale azzurro inizia e finisce all’interno di queste quattro variabili. Quattro, proprio come i tiri in porta effettuati contro Costa Rica e Uruguay.