Contestazioni, tentativi di corruzione, inseguimenti e fughe, soddisfazioni, gioie, sorrisi. Nel 1929 uscì un editoriale di fuoco sulla rivista «L'arbitro» dal titolo emblematico: Basta. Non ne potevano più di ingiurie, atti villani, percosse. «Il nostro non è un mestiere, solo pura passione», si scriveva in quell'articolo. Con il tempo la passione cominciò a essere sostenuta da rimborsi spese, fino a quando venne sacito, nel 1996, il professionismo, con stipendi che arrivavano a 250 milioni di lire per i big della A. E l'euro ha fatto da moltiplicatore (ma non per tutti, basti pensare alle tante giacchette nere di periferia, coloro che si ritrovano nei campi di terra battuta di società impegnate nel Settore Giovanile e Scolastico, Juniores, Terza e mettiamoci pure la Seconda). Ma poiché oggi fischiare è davvero una professione, le tensioni aumentano, la selezione è crudele, gli errori gravi possono costare una carriera. In passato succedeva soltanto per questioni deontologiche. Un esempio: nel 1949 venne radiato il toscano Pera, che aveva diretto con vergognosa parzialità a favore della Roma una partita a Novara.
Queste le parole del numero uno dell'A.I.A. Marcello Nicchi:
Buon compleanno a tutti gli arbitri di calcio italiani. Il 27 agosto di cento anni fa nasceva l'AIA e con essa aveva inizio la storia leggendaria delle giacchette nere.
La vita associativa testimonia che il passato ha gettato delle radici profonde e solide grazie all'attivita' di tutti quegli Associati che, per qualche mese o per una vita intera, hanno condiviso i valori del nostro mondo arbitrale. Il presente ha realizzato e sta portando avanti quel progetto iniziale, creando una realtà in grado di garantire con successo i grandi cambiamenti dello sport e della società civile. Il futuro sarà una sfida da affrontare con l'esperienza del passato e l'entusiasmo e le idee dei giovani arbitri. La nostra storia ci ricorda da dove veniamo, chi siamo e il ruolo che ricopriamo e ci fa presente quali sono i valori cardine a cui la nostra attività risponde: onestà, dedizione e senso di responsabilità.
In questo momento particolare per il mondo del calcio, mi sento di rivolgere un sentito ringraziamento ai Presidenti del CONI, Gianni Petrucci, e della FIGC, Giancarlo Abete, per l’attenzione che hanno sempre rivolto al mondo arbitrale e per le parole di apprezzamento che, a più riprese, hanno rivolto alla nostra organizzazione.
A nome del Comitato Nazionale, rivolgo il pensiero a tutti gli arbitri, da chi è entrato di recente a chi è riuscito a fare grande questa Associazione, e dico loro di vero cuore: buon compleanno!
Insomma 102 anni e non sentirli! Centodue anni non sempre rose e fiori, a volte con qualche richiesta di dimissioni di giovani fischietti pressati psicologicamente da dirigenti e calciatori stessi, senza parlare degli spettatori in tribuna. Non conosciamo il numero esatto di dimissioni avvenute nella scorsa stagione sportiva ma possiamo farci un'idea: tempi difficili per il lavoro in Italia, trasferte non retribuite subito (in media un tempo che va dai tre ai cinque-sei mesi, se ti va bene) e famiglia. Bastano queste tre componenti per consegnare tessera federale, essere in regola con le quote associative e firmare il proprio esonero. Torniamo però alla condizione psicologica di un arbitro. L'arbitraggio è un impegno che sembra strano, ma è davvero importante.
Ogni settimana, in una piccola Sezione, si designano tra i cinquanta e i sessanta arbitri. A volte non ce li hai nemmeno disponibili. Dato che ci sono regole precise, se rifiuti un certo numero di gare non puoi continuare, così come se ti manca il certificato medico o se hai fatto qualche cavolata. Coloro che lasciano è perché si rendono conto da soli che non riescono a mantenere l'impegno. La pressione del campo non viene temuta, anzi. Viene piuttosto vista come una sfida per migliorarsi...Più che un lavoro è una vocazione. Più che un'attività, è il frutto di una passione, talvolta innata, talvolta tramandata di generazione in generazione.
Auguri A.I.A.!