Smentire i pronostici in una notte di fuoco, nella quale nulla va per il verso previsto. Chi era favorito, cade. Chi doveva decidere, sbaglia. Chi doveva essere protagonista, si nasconde. E chi non doveva esserlo, si trova addosso la luce dei riflettori. Tutto il contrario di tutto. Cala il sipario sulla Copa America Centenario 2016, l'edizione gold si tinge di rojo, il Cile trionfa ancora e l'Argentina cade di nuovo, per il terzo anno consecutivo l'estate albiceleste va in archivio con una finale persa (aspettando le Olimpiadi?), di nuovo ai rigori, di nuovo contro lo stesso avversario, rivedendo i fantasmi del 2015.
Il campo, per una volta, parla poco. A fare la voce grossa è un arbitro, il signor Heber Lopes, che sembra più interessato a distribuire cartellini che a privilegiare lo svolgimento di una partita che prometteva spettacolo nei primissimi minuti ma che invece, causa le decisioni del 43enne brasiliano affetto da evidenti manie di protagonismo, si è spenta ben presto, uccisa da cartellini sparati come proiettili al cuore della gara e a fischi che sembrano più coltellate allo spettacolo. Quando entrambe le squadre si trovano con l'uomo in meno, la partita si perde. Oltre alla garra in mezzo al campo c'è pochissimo, tanto che le vere occasioni da gol nei 120 minuti possono essere quantificate a quattro: quella che Higuain si divora nel primo tempo, il liscio di Sanchez sul finire della partita, le parate di Romero e Bravo nel supplementare rispettivamente su Vargas e Aguero.
Oltre a questo, il vuoto. Già dalla fine del primo tempo si era intuito che la partita si sarebbe prolungata fino ai tiri dagli undici metri, col leitmotiv sempre uguale: l'Argentina che scava per vie centrali, continuamente imbrigliata dal posizionamento del Cile, che però deve abbassare Sanchez e perdere pericolosità, visto che i due terzini di Martino non si staccano quasi mai dalla linea non lasciando molto spazio alle ripartenze. Il nulla, 120 minuti di intensità clamorosa in mezzo al campo, folate improvvise e contrasti che hanno il compito di accompagnare fino al triplice fischio di chi sulla partita ha messo un timbro che nessuno aveva richiesto, dimenticandosi che i protagonisti dovevano essere altri.
Oscurati dalla fioca lucentezza di Lopes finiscono soprattutto gli attaccanti Argentini: Di Maria viene costretto a giocare dentro al campo, di fatto togliendo l'unica fonte di gioco sulle fasce all'albiceleste, mentre Messi e Higuain perdono lo smalto dei tempi migliori, trovandosi poco e male. Entrambi escono dalla partita con responsabilità enormi, ma è difficile puntare il dito contro la pulce per i 120 in campo essendo stato uno dei più propositivi, al contrario del compagno d'attacco, che inizia con un clamoroso errore davanti al portiere (il terzo in tre finali consecutive) e conclude sparendo totalmente dai radar.
L'eccesso di cartellini snatura anche la Roja, Pizzi reinventa un 4-4-1 con Fuenzalida e Sanchez larghi, perdendo di fatto anche gli inserimenti di un generosissimo Vidal, scegliendo un assetto più difensivo e chiedendo maggiore sacrificio ai propri interpreti, a scapito della manovra, a tratti buona con dei fraseggi anche interessanti ma per la maggior parte del tempo un po' inutile, dominata dalla frenesia della partita. Doveva essere una sfida interpretata a viso aperto tra due filosofie di calcio offensivo, è finita per essere una battaglia a chi colpisse più volte la palla rispetto alle gambe. 0-0, 10 cartellini estratti e 36 falli fischiati, con lo spettacolo ridotto all'osso. Alla fine ha vinto chi è riuscito a tenere i nervi più saldi, ovvero il Cile, sfruttando anche la pressione schiacciante sull'avversaria, costretta a vincere, ma nuovamente sconfitta.
La lotteria dei rigori si racconta tramite le facce dell'albiceleste. La sicurezza di Mascherano e di Aguero non è bastata di fronte alle incertezze di un Messi già finito nell'occhio nel ciclone e di un Biglia in pessime condizioni fisiche e costretto a giocare 120 minuti. L'Argentina perde ancora, sconfitta dalla freddezza del Cile, da sé stessa e dalle decisioni di un brasiliano. Diciamocelo, rigiocandola per dieci volte con dieci arbitri diversi da Lopes, Messi alzerebbe il trofeo in almeno nove casi. Eppure la realtà racconta una storia diversa, racconta di una squadra che ancora una volta si scopre fragile nel momento che più conta, che ora vedrà aumentare il digiuno di trofei a 25 anni, qualcosa di impensabile e di clamoroso per una squadra con tutto quel talento, con quella storia di calcio, per una squadra che a volte è il calcio. E che trema, vista l'aria di addio che tira per diversi senatori.
Addossare tutte le colpe a Messi è tanto facile quanto sbagliato, anche se resta lo sport preferito di molti. Se Higuain segna almeno due delle tre occasioni nelle ultime tre finali, oggi la solfa sarebbe ben diversa. Ovviamente questo non vuol dire addossare colpe al Pipita, che resta un attaccante straordinario, ma i suoi errori sono un fattore da tenere in considerazione, così come il penalty di Biglia, tanto pesante quanto quello di Lionel. Il fatto è che questa finale persa assomiglia tremendamente alle due scorse, gli spettri che girano intorno a tutta l'Argentina sembrano quelli con cui fa i conti il Benfica da anni, una sorta di maledizione che ovviamente non esiste, ma è talmente radicata nell'ambiente e nella mentalità che oramai sembra quasi reale.
Dall'altra parte resta la gioia, la soddisfazione di aver portato a casa il secondo trofeo internazionale consecutivo e assoluto da aggiungere in bacheca, resta una rivincita nei confronti di chi dava per spacciata una squadra che si è sbloccata tardi ma l'ha fatto in grande stile, che si è rilanciata a torneo in corso recuperando mentalmente Bravo e Vargas, affetti da gravi problemi familiari, fortunatamente superati. Il Cile si conferma una realtà consolidata e vincente, Pizzi si prende la sua personale rivalsa sui critici. Il suo nome resterà scolpito nella storia di un paese che si sta costruendo una tradizione, tra il calore della propria gente e la freddezza dagli undici metri.