Con la vittoria contro la Juventus ieri all'Olimpiastadion di Berlino, Lionel Messi si è aggiudicato la sua quarta Champions' League, la terza da protagonista assoluto. Erano quattro anni, dalla finale di Wembley 2011 contro il Manchester United di Sir Alex Ferguson, che il Barcellona non arrivava in fondo alla competizione continentale più importante al mondo. In mezzo, la finale dei Mondiali in Brasile persa contro la Germania, giocata per onor di firma a causa dei ricorrenti conati di vomito. Non è stata di certo una traversata nel deserto per la Pulga, abituato comunque a collezionare cifre realizzative sbalorditive, con non meno di 50 gol a stagione all'attivo.
Eppure, i due palloni d'oro vinti consecutivamente dal suo eterno rivale in maglia blanca, Cristiano Ronaldo, avevano indotto alcuni, tra osservatori e appassionati, a ritenere - in maniera un po' fantasiosa - che il 27enne da Rosario avesse imboccato in anticipo la strada che conduce al sunset boulevard dei fuoriclasse. Qualche problema fisico di troppo, la difficoltà di trovare partner offensivi che lo completassero e le ultime, non esaltanti, campagne europee del suo Barça avevano sollevato dubbi sulla sua permanenza in maglia blaugrana, al punto che a inizio stagione, la stampa spagnola ne aveva paventato l'addio, con conseguente approdo al PSG, all'ombra della Tour Eiffel. Persino in Catalogna continuavano ad aumentare le voci circa abitudini di vita non troppo professionali di Messi, anche in virtù delle dichiarazioni di Carles Rexach, storica bandiera blaugrana, che solo quattro mesi fa aveva fatto intendere di non aver apprezzato le abitudini alimentari del suo numero 10 nella stagione precedente, unico anno dell'era del "Tata" Martino.
In realtà i numeri di Messi sono sempre rimasti da record, arrivando addirittura a toccare quota 73 gol segnati nella stagione 2011-2012, l'ultima di Pep Guardiola da allenatore in terra catalana. Assist, giocate da urlo, e colpi da fuoriclasse vero non sono mai mancati in questi anni. Ma, come imparato da Carlo Ancelotti quest'anno alla guida del Real Madrid, quando in una stagione un club come il Barcellona non vince il campionato e non arriva in finale di Champions, ecco piovere critiche, ipotesi, congetture e discussioni di ogni genere. Negli ultimi anni il gioco dei blaugrana era risultato sempre più spesso lento e prevedibile, e quella posizione al centro dell'attacco, da falso nueve, ritagliatagli appositamente dal suo mentore Pep, sembrava diventata una gabbia per la Pulce, più vicino alla porta ma con meno campo davanti a sè per scatenare le sue eccezionali qualità tecniche e atletiche.
E, quando sembrava che il rapporto di Leo con il Barcellona stesse volgendo al termine, anche complice l'approdo in panchina di Luis Enrique, tecnico dalla personalità molto particolare, ecco arrivare la svolta, tattica e psicologica, che ha cambiato le sorti blaugrana nella stagione. L'acquisto dell'uruguaiano Luis Suarez, primo attaccante dai tempi di Eto'o a trovarsi a suo agio in equilibri offensivi fin troppo sottili, ha indotto Luis Enrique a dirottare Messi sulla fascia destra, sua ruolo originario. Ne è derivato un giocatore ancora più coinvolto, con la possibilità di alternare le sue proverbiali accelerazioni con giocate a tre con Suarez e Neymar, un rebus irrisolvibile per le difese avversarie. E poi, quella panchina a San Sebastian contro la Real Sociedad, nella prima gara dopo la sosta natalizia, coincisa con una brutta sconfitta dei blaugrana. Da quel momento il rapporto burrascoso con l'allenatore ha preso una direzione diversa, come se Luis Enrique avesse voluto sfidare il suo fuoriclasse a fare di più. Quale che fosse il messaggio, è stato recepito e da gennaio il Barcellona ha macinato ogni avversario gli si parasse davanti, recuperando lo svantaggio in campionato, vincendo la Coppa del Re e terminando la propria cavalcata europea con un trionfo davanti alla Porta di Brandeburgo.
In una stagione senza Mondiali nè Europei, la vittoria del triplete rende Messi il favorito naturale per la conquista dell'ennesimo pallone d'oro, il quinto, di una carriera già leggendaria, ma ben lontana dalla sua conclusione.