“Solo tre uomini sono riusciti a zittire il Maracana con un gesto: Frank Sinatra, Giovanni Paolo II e io”.
Inizia così il racconto di una delle più devastanti partite giocate nella storia dei Mondiali di calcio. Le parole sono di Alcides Ghiggia, l'eroe uruguagio di quella partita. Il match ha degli effetti talmente epocali che assume un nome proprio. Si sta parlando dell’incontro fra Uruguay e Brasile al Maracanà. Si sta parlando del Maracanazo.
Il Mondiale è quello del 1950. Stando al progetto iniziale della Fifa, il torneo avrebbe dovuto disputarsi nel ’49, ma il governo brasiliano (che puntava ad un evento di portata globale come questo per accrescere il proprio consenso fra il popolo) chiese una deroga speciale per poter ultimare quello che sarebbe stato il più grande stadio di tutto il Mondo, il Maracanà, e così il calcio d’inizio della quarta edizione della Coppa del Mondo slittò di un anno. Nel frattempo si svolsero i gironi di qualificazione, pesantemente influenzati dalle conseguenze della seconda guerra Mondiale. Molte squadre non riuscirono economicamente a partecipare, mentre altre si ritirarono: l’India perché la Fifa non permetteva di giocare a piedi nudi come era loro tradizioni, la Scozia, perché si piazzò seconda nel girone di qualificazione e non accettò l’onta di vedersi preceduti dai cugini inglesi e la Turchia. Nemmeno l’Italia aveva intenzione di partecipare viste le precarie condizioni in cui oscillava il nostro paese, ma era bi-campione in carica e la FIFA assicurò alla delegazione di pagare tutte le spese di spedizione. Si presentarono in Brasile 13 squadre, il minor numero dai tempi della prima edizione nel 1930: cinque sudamericane, due nordamericane e sei europee. I gironi sono parecchio raffazzonati e quasi bizzarri: due raggruppamenti da quattro squadre, uno da tre (Italia, Svezia e Paraguay) e uno addirittura da due squadre (Uruguay e Bolivia). Le prime di ogni girone si sarebbero sfidate in un girone finale e chi totalizzava più punti avrebbe alzato la Coppa Rimet.
Dopo che gli operai brasiliani, nonostante i lavori non fossero ancora del tutto completati, testarono la resistenza del Maracanà, il Mondiale finalmente prese il via. Il vicepresidente della Fifa Ottorino Barrasi, colui il quale aveva custodito in una scatola di scarpe la coppa Rimet ( nel 1950 per la prima volta intitolata al suo ideatore) durante il conflitto mondiale, recuperò il trofeo e sancì l’inizio del torneo. L’Inghilterra si presentò per la prima volta ai nastri di partenza della massima competizione calcistica globale. L'Italia (che nonostante abbia iniziato dalla parte degli aggressori il conflitto mondiale non è stata squalificata come Giappone e Germania) era ancora sotto shock a causa della perdita del Grande Torino in quel maledetto giorno di Superga e arrivò in Brasile viaggiando in nave, perché di prendere un aereo per una traversata oceanica dopo ciò che era successo alla squadra più forte del Mondo era un’opzione altamente improbabile. Il soggiorno in nave fu qualcosa di assurdo visto che la nave non era riservata esclusivamente ai giocatori, ma era popolata anche da turisti a bordo, che non permisero agli azzurri di potersi concentrarsi e allenare. Inoltre, tutti i palloni a metà del viaggio erano già tutti dispersi in acqua e quindi giù di flessioni fino all’attracco in Brasile (dopo tre settimane di viaggio) e si può capire in che condizioni arrivò la rosa italiana alla rassegna mondiale. Il CT non era più Vittorio Pozzo, allenatore dei primi due titoli mondiali, e così a sbrigare le questioni tecnico tattiche si presentò un insolito duo: Ferruccio Novo, presidente di quel Grande Torino tragicamente scomparso, e un giornalista, tale Bardelli. Fra i due non sbocciò mai un’intesa che si possa definire tale, e la squadra implose in se stessa andando a perdere 3 a 2 contro la Svezia di quel Lennart Skoglund che i tifosi interisti di vecchia data dovrebbero ricordare per il ciuffo biondo e la caparbietà nel puntare l’avversario e seminarlo con colpi di magia degni di Pelé o Meazza. Gli svedesi poi pareggiarono contro il Paraguay, rendendo inutile la vittoria degli azzurri contro i deboli sudamericani.
Una cartolina della spedizione azzurra in nave datata 19 Giugno 1950
Il 1950 non fu quindi un mondiale abbracciato dal tricolore italiano, ma neanche l’Inghilterra (quella nazionale che non aveva partecipato alle primi due edizioni dei Mondiali perché si ritenevano troppo superiori) riuscì a recitare un ruolo da protagonista. Infatti, nonostante gli inglesi avessero arruolato nelle proprie fila il più grande attaccante della storia della penisola britannica Stanley Matthews, uscirono mestamente nel girone dei ‘coloni’ (e molto meno quotati) degli Stati Uniti. La partita ha più o meno questa trama: i maestri di calcio d’Inghilterra si presentarono alla partita carichi di supponenza e con un sentore di onnipotenza, certi di poter rifilare una lezione storica agli statunitensi pur senza Matthews, che non giocò “per motivi politici”, visto che sembra avesse detto che lui contro una succursale non voleva sprecare tempo. Gli Stati Uniti d’altronde non parevano altro che un’accolita di amici che giocano a livello amatoriale usando le maglie del River Plate, ubriacandosi la sera prima della partita. Ma tra loro c’era anche qualcuno che al football sapeva giocarci per davvero: Joseph Gaetjens è il nostro uomo, capace di segnare decine e decine di gol solo in tuffo di testa, tanto che sua sorella arrivò a cucire per lui una maglia speciale imbottita all’altezza del petto, così che ogni volta in cui lui si lanciava in un groviglio di corpi in area di rigore potesse riuscire a non farsi troppo male atterrando pancia a terra. Gaetjens è il nostro uomo perché, con la partita bloccata sullo 0-0 (ah, quanto si compiacevano gli inglesi del loro gioco, specchiandosi in effimeri passaggi tanto spettacolari quanto inconcludenti, convinti di poter segnare in ogni occasione) colse l’attimo e su un cross sbilenco di un compagno (che assomigliava tanto ad una preghiera lanciata a caso in area di rigore) spizzò il pallone abbastanza da beffare il portiere avversario e siglare l’1-0. Nel secondo tempo gli inglesi giocarono con gli occhi iniettati di sangue, ma la combriccola di amici alzò le barricate e riuscì a portare a casa la vittoria. Per la mera cronaca i giornali inglesi, che hanno ricevettero solo il risultato della partita, pensarono ad un errore e il giorno dopo uscirono con il titolo: “Inghilterra 10 - Stati Uniti 1”. Si dovettero ricredere e, informati del vero risultato, l’indomani corressero il titolo: “La morte del calcio inglese”. I Britannici andranno poi a perdere anche contro la Spagna e conclusero con zero punti la loro prima sortita Mondiale.
L'attaccante Gaetjens viene portato in trionfo dopo il gol vittoria contro l'Inghilterra
Tolta quindi l’Italia bi-campione del Mondo, l’Inghilterra dei maestri, con gli Argentini che non si presentarono perché ritenevano un’ingiustizia che l’organizzazione del Mondiale l’avesse ottenuta il Brasile e non loro, rimasero due grandi contendenti per il Mondiale: l’Uruguay, forte di una tradizione che conta due medaglie d’oro olimpiche e un trionfo al Mondiale, nel 1930, e il Brasile, padrone di casa e chiamato al salto di qualità dopo la delusione del 1930 e del ’34, culminate con due uscite al primo turno e la semifinale raggiunta nel 1938 e persa solo grazie alla Paradinha di Meazza, nonostante i Brasiliani fossero talmente sicuri di vincere che la federazione aveva già comprato i biglietti del treno per recarsi a Parigi, dove ci sarebbe stata la finalissima e inoltre il CT fece riposare il loro miglior giocatore Leonidas in vita appunto della partita finale.
Italia-Brasile 1938
L’Uruguay battè in scioltezza al Bolivia per 8-0 e passò al girone finale così come il Brasile: nelle prime due partite i Carioca annientarono le squadre europee (13 gol fatti e due subiti), mentre gli uruguagi soffrirono più del previsto, tant’è che al Brasile -nell’ultima partita del girone proprio contro i biancocelesti- basterebbe un pari per alzare la prima coppa. La popolazione brasiliana era totalmente sicura di vincere che molti abitanti di Rio de Janeiro, desiderosi di aumentare il propor capitale, scommisero tutti i loro averi nel trionfo finale.
Nei giorni prima della partita contro l'Uruguay infatti, in Brasile era tutto una grande festa: non era strano poter osservare scatenarsi per strada caroselli da parte dei tifosi, e la mattina della partita si improvvisò addirittura un Carnevale. Jules Rimet, il presidente della FIFA, aveva già pronto un discorso in portoghese per celebrare la vittoria dei padroni di casa, la federazione brasiliana (che sembrava non aver imparato nulla sulla scaramanzia dall’esperienza del Mondiale del 1938) aveva fatto stampare cinquecentomila maglie con la scritta “Brasile Campione 1950”, e i titoli dei giornali quel giorno furono faraonici: “A Copa serrà nossa”, la coppa sarà nostra, o “O Brasil vencerà”, il Brasile vincerà. Tutto sembrava pronto ancor prima del fischio d’inizio, addirittura si erano già svolte le votazioni per il miglior giocatore del torneo ed era stato eletto all’unanimità il portiere di casa, Moacir Barbosa.
In quel pomeriggio del 16 luglio però i Carioca non trovarono il classico sparring partner, pronto ad assistere inerme al trionfo avversario. L’Uruguay era una squadra tosta, forte e determinata, capitanata da un giocatore di colore che aveva calcato tutti i campi più infuocati del Sudamerica e non aveva più paura di nulla, neanche di 170’000 brasiliani assiepati in ogni angolo del Maracanà: Obdulio Varela era uno che, se avesse potuto, sarebbe voluto morire a centrocampo. Lì, nel mezzo dell’azione, il centro nevralgico del gioco, dove un tackle difensivo si trasforma in ripartenza e dà la spinta per arrivare fino alla trequarti avversaria, che rappresentava il suo territorio di conquista. Il CT dell’Uruguay Lopez Fontana poteva inoltre contare sul talento di Schiaffino, un giocatore dal talento abbacinante, in grado di fare ciò che più gradiva col pallone: leggenda vuole che mettesse delle lattine sulla traversa per poi abbatterle con dei chirurgici calci di punizione da fuori area. Aveva inoltre un senso della posizione e una visione di gioco fuori dal comune e l’asse Schiaffino-Ghiggia era molto sfruttato dalla formazione uruguaiana per scoperchiare le difese avversarie. Ghiggia era la più classica delle ali destre, in grado di giocare in bilico sulla linea del fallo laterale e che riusciva letteralmente a rintronare gli avversari a suon di dribbling ubriacanti. Vestivano la maglia bianca la consueta accozzaglia di funambolici giocatori brasiliani come il portiere Barbosa, l’ala Jair, Aldemir, Chico e fra tutti spiccava Zizinho, un altro di quei giocatori che davano del tu al pallone, in grado di svoltare da solo le partite con un tocco di alta classe o con un tiro di pura prepotenza tale da scaraventare palle e portiere dentro la rete.
L’arbitro inglese Reader fischiò l’inizio della partita, e il Maracanà iniziò subito a farsi sentire, spronando i brasiliani - che per l’occasione si schieravano nel modo più offensivo possibile con uno sfrontato 2-3-4-1 - ad attaccare senza pietà. Nonostante tutto l’Uruguay resistette, grazie alle miracolose parate del portiere Maspoli e alla tenace carica che Capitan Varela infondeva nella squadra e tentò anche qualche sortita offensiva sfruttando le fasce, ma il tutto si concluse con un nulla di fatto. La prima parte dell’incontro terminò con un laconico 0-0 e negli spogliatoi, come racconta Ghiggia, Varela era una furia: appese Schiaffino al muro, reo di non giocare con la giusta grinta quella partita fondamentale e come un pastore che predica i suoi fedeli, spronò i suoi uomini a lottare su ogni singolo pallone, a non badarsi di quell’infernale torcida dei tifosi sugli spalti, perché la partita si poteva ancora vincere. Ma nella seconda frazione l’incantesimo si spezzò: Friaça segnò per il Brasile, e in tutto il paese scoppiò una festa pazza, gioiosa. Ora i Carioca avrebbero assaltato la porta degli uruguagi e l’avrebbero demolito a suon di bordate, di colpi estrosi e la Coppa sarebbe rimasta in Brasile. Ma Capitan Varela non diede la possibilità ai brasiliani di caricarsi ancor di più: raccolse il pallone dal fondo della rete e si diresse verso il guardalinee, lamentando un fuorigioco non segnalato. La partita si bloccò, e i tifosi sugli spalti erano attenti, tutt’un tratto silenziosi. Varela li aveva domati con la freddezza mentale, polemizzando con gli arbitri per rallentare la ripresa del gioco ed evitare che l’ondata di talento brasiliana, infuocata dal gol e aizzata dai tifosi, si potesse abbattere sui suoi compagni.Dopo quella che ai brasiliani sembrò un’eternità, si ricominciò a giocare e i padroni di casa, che non avevano chiaro il concetto di ‘mantere il risultato’, si lanciarono ancora in attacco, lasciando ampi varchi in difesa. Uno di questi pertugi fu sfruttato da Varela che, recuperato un pallone, lanciò Ghiggia sulla fascia: cross in mezzo per Schiaffino e 1-1. I Brasiliani si scoprirono fragili, storditi, e frastornati.
A loro basterebbe il pari, ma decisero di voler vincere, di strafare, e si lanciarono ancora una volta in attacco alla ricerca del gol. A dieci minuti dalla fine, il tempo si fermò. Alcides Ghiggia aveva recuperato un altro pallone, l’ennesimo della sua partita e partì in contropiede, saltando il terzino Bigode ed entrando in area di rigore: in mezzo c’era Schiaffino, come nell’azione del primo gol. Stava per crossando , ma Ghiggia vide che Barbosa si era leggermente spostato verso il centro dell’area, lasciando parzialmente scoperto il primo palo. La decisione fu istantanea: calciò forte in quella direzione, verso la porta. Barbosa si tuffa, lo stadio ammutolisce. Gol. Il portiere, rannicchiato a terra, era convinto di aver agguantato il pallone che però, infame, gli passò fra le mani e sotto le gambe. Uruguay 2, Brasile 1.
Gli ultimi assalti non ebbero alcun risultato, i Brasiliani incominciarono ad avere paura, non sapevano gestire la pressione e ogni folata offensiva venne respinta dalla garra di Varela e compagni. La partita finì con un clima surreale, il pubblico era ammutolito come Ghiggia ama ricordare, e tutte le celebrazioni vennero annullate. A consegnare la Coppa scese dalla tribuna d’onore il solo Jules Rimet, che strinse la mano a Varela e poi uscì mestamente da quella cornice inquietante quale era diventato il Maracanà.
La gente piangeva, si disperava, era a pezzi. Per loro quella sconfitta rappresentava la morte del calcio. Sugli spalti scoppiarono diversi scontri e si parla addirittura di una decina di persone che morirono d’infarto. C’è chi in quei giorni ha contato 36 suicidi e 47 arresti cardiaci fra i tifosi che avevano scommesso tutta sulla vittoria finale. I titoli dei giornali del giorno seguente sono abbastanza eloquenti per descrivere lo stato del paese: “Nossa Hiroshima”, la nostra Hiroshima. Venne coniato il termine Maracanazo, il disastro del Maracanà.
Ary Barroso, famoso musicista che per diletto commentava le partite del Brasile, decise di smettere con la carriera da giornalista. Il difensore Danilo, titolare in quella partita, cadde in una profonda crisi depressiva. Ghiggia fu malmenato in aereoporto, e dovette tornare in Uruguay con le stampelle. Regnava il caos e partì la caccia al capro espiatorio: molti attaccarono l’allenatore Flavio Costa, ma le accuse maggiori furono rivolte al portiere di quella Nazionale, il miglior giocatore del torneo prima dell’infausta partita finale: Moacir Barbosa, il primo portiere nero della Nazionale, fu violentemente insultato e denigrato dall’intera nazione, tanto da erigerlo a icona porta sfortuna e a impedirgli, in occasione della Finale di Stati Uniti 1994, di assistere alla partita. Morirà nel 2000, con un funerale a cui parteciperanno una trentina di persone, senza neanche l’ombra di una figura del mondo calcistico. Il Brasile non giocherà più una partita per due anni, fino cioè a quando tutto ciò che era appartenuto al Maracanazo non verrà sostituito : il CT si era rifugiato in Portogallo, per vedere un altro portiere di colore fra le fila dei brasiliani bisognerà aspettare l'arrivo di Nelson Dida e persino la maglia fu cambiata. A vincere il concorso indetto dalla federazione con l’intento di sostuire la maglia bianca con una più rappresentativa della passione carioca era stato uno studente universitario… Tifoso dell’Uruguay! Perché quando la storia si annoia, si diverte a giocare con le coincidenze.
Come ci erudiscono, sono state giocate partite che hanno cambiato (o cambieranno) il corso della storia del calcio. Il Maracanazo in questa speciale classifica è, senza alcun dubbio, una delle prime tre.