Ancora Bayern Monaco e Chelsea come nella finale di Champions League edizione 2011/2012 all' Allianz Arena, ancora ai rigori. Un'altra battaglia, e la stessa. Questa volta però gli inglesi cedono il passo alla potenza nemesiaca e alla brama di vittoria dei tedeschi, Lukaku o non Lukaku. Le motivazioni contano. Sempre. Rivincita, rivalsa, paura e desiderio di conquista e di arrampicarsi sulla vetta per provare a sfiorare l'intangibile, a profanare l'aura di un trofeo mai raggiunto dai bavaresi, mai raggiunto da una squadra tedesca. Ecco ancora il Bayern. Profanatore. Vincitore. Di nuovo la squadra da sconfiggere dopo i recenti fasti heynckesiani, il Bayern che dopo il passaggio di consegne non intende indietreggiare di un millimetro di fronte a nuove possibili glorie. "Ja können wir" sono le parole del nuovo dizionario bavarese secondo Pep, il Barak Obama del calcio.
Ancora Guardiola e Mourinho, di nuovo loro, sempre loro. Il calcio degli ultimi anni non può prescinderne. Di più: non può farne a meno a certi livelli. Statistiche vogliono che sia il sedicesimo incontro, o per meglio dire scontro. Due generalissimi. Non si amano. Come avrebbero potuto farlo Napoleone e l'ammiraglio Nelson, Cesare e Vercingetorige? E tuttavia, enorme, assoluto rispetto come è giusto che sia tra acerrimi nemici. Forse i più grandi interpreti del calcio nell'epoca degli sceicchi fantamilionari e dei faraonici ingaggi. Due figure che incarnano metastoricamente, hegelianamente, due concezioni calcistiche opposte, due modalità antipodiche d'intendere il medesimo sport. Guardiola condottiero apodittico, strutturalista, allievo della vecchia scuola sudamericana dei Bielsa e dei La Volpe riaggiornata alla luce postmoderna delle nuove tecnologie (sistemi d'allenamento, bio-meccanica etc) sicuro dei suoi teoremi, propugnatore ad oltranza di un calcio aggressivo, dinamico, totale. Mourinho, stratega dotato d'intelligenza luciferina, camaleontico, filosofo, psicologo e anticristo. Special one, happy one, o semplicemente The One. Pretende l'amore da chi gli sta intorno e trova ovunque gente disposta ad adorarlo. Una disseminazione, ormai. Ma come si può amare veramente il diavolo? Se lo chiede ancora Florentino Pérez. Strenuo difensore di un calcio adattivo, proteiforme, finanche parassitario. Farmacologico. Nel senso greco di phármakos. Veleno e antidoto contemporaneamente. Un calcio inteso come anticorpo che valuta ogni prerogativa dell'avversario per ritorcergliela contro trovando la soluzione perfetta, il modo migliore per fagocitarne l'energia e risputargliela addosso. Venefico e taumaturgo. Contropiedista decostruzionista contro un calcio robusto e strutturato ("Maestro contropiedista" l'aveva definito il catalano nelle punzecchiature mediatiche del pre-partita, cogliendo solo una parte della verità su Mou), Costruttivista e artigiano implacabile della circolazione e possesso palla contro chi "osa" fondare il proprio gioco su ripartenze e contrattacco. Vittima o carnefice, dipende da chi si ha di fronte.
E tra i due, come in questa partita unica in ogni senso, come sempre, è battaglia campale, sfida all' O.K. Corral. Necessariamente. Prima, durante e dopo il match. Non è mai solo questione di club quando a guidarli sono persone che fanno la storia (del calcio). Però a fare la storia (del calcio) sono anche coloro che in quel prato verde sentono quel peso specifico della storia, percepiscono l'importanza del momento e si affidano al volere di Nike (la dea del mito, non del marketing) con devozione, desiderando la vittoria più di qualsiasi altro. Più dei loro allenatori, più dei loro tifosi. In quel preciso istante sono omerici eroi (tá próta tón andrón).
Prima lezione impartita già subito lì, nelle medias res dell' Eden Park di Praga dal saggio José al rivale: non occorrono novanta minuti per vincere una partita, ne bastano nove. Quelli impiegati dal Niño Torres per trafiggere un incolpevole Neuer. One shot one kill. Non occorrono ottantasette passaggi per arrivare al tiro decisivo, ne bastano 3. Quelli effettuati da David Luiz, Hazard e Schürrle per giungere al tocco fatale di Torres. Lezione incassata ma non pienamente metabolizzata con il Bayern che prosegue imperterrito sulla sua linea di pensiero ma con alcune significative varianti: rapidi cambi di gioco con traversoni a fendere il campo per innescare la velocità dell'apertura alare del gioco del Bayern: Ribéry e Robben. Frequenti accentramenti degli stessi per garantire più robustezza a centrocampo e, soprattutto per cerare superiorità numerica nelle zone nevralgiche del gioco, con scambi rapidi per prendere in velocità la retroguardia di un Chelsea via via sempre maggiormente arroccato all'interno della propria area.
E quando la strategia sembra non funzionare perché un avversario d'inestimabile valore come il Chelsea ha qualità e capacità per difendere meglio dei 200 a Fort Alamo con Lampard che è un leone, ci pensa sempre l'uomo della storia, in questo caso un inenarrabile Ribéry a pescare il jolly da fuori area, con Cech in questo caso non irreprensibile, più tardi però investito dalla magia della sua Praga per tre interventi miracolosi. Lezione numero 2: la genesi di un nuovo team parte sempre dalla difesa. E proprio quella linea difensiva così disegnata con Rafinha inadeguato al compito (che fa perdere anche in termini di spinta propulsiva nella fase di possesso), svarioni di Dante compresi, punctum oggettivamente dolens di questo nuovo Bayern, verrà ricalibrata da Guardiola con il riposizionamento di Lahm, al momento dell'ingresso di Javi Martinez, a sua volta decisamente meglio del troppo raffinato Kroos, in assenza di Schweinsteiger.
Qualcosa poi di non necessariamente trascendente come la banalità, o la goffaggine del gesto, come quella di Ramires su Götze, si mette contro Mourinho, uno che oltre tutto, se può, erge l'alibi a massimo sistema. Ma Mou continua ad impartire lezioni: mai definire "maestro del contropiede" qualcuno e non prendere le contromisure giuste. E Hazard possiede tutti i numeri per sbertucciare Lahm, Boateng e Neuer e mettere la firma sulla lezione number 3. Il Chelsea prima del tempo di Willian e Eto'o è già letale.
Mentre si rivedono fantasmi di Barcellona - Inter 2010, semifinale di ritorno di Champions League, Guardiola è uno che apprende in fretta, consapevole di ciò che sta girando nel suo Bayern e cosa no, e alla fine la lezione più dura e importante la impartisce lui: solo chi crede nella vittoria giocandosela fino all'ultimo sospiro, l'estremo rantolo di vita, evitando di rintanarsi dietro ai "se" e i "ma", laddove vincere non è mai una questione "condizionale", merita di ottenerla.
Mou: "Do you feel you can shoot it?"
Lukaku: "Yes, Sir"
Mou: "Do you really feel it?"
Lukaku: "Yes, Sir"
E tutto il resto è Neuer.