Dopo una regular season travagliata, fatta di incomprensioni, incompatibilità tecniche, trades e difficoltà di ogni genere, i Cleveland Cavaliers sembravano poter cadere nella trappola del primo turno dei playoffs contro gli Indiana Pacers di Nate McMillan. Superato in gara-7 l'ostacolo rappresentato da Victor Oladipo e compagni, i Cavs veleggiano ora verso un'altra finale di Conference, nella quale saranno comunque favoriti, sia contro Philadelphia che contro Boston.
Merito di LeBron James, che con la sua sola presenza ha già mandato a carte e quarantotto la stagione dei Toronto Raptors di Dwane Casey, smantellati in gara-2 da un secondo tempo d'antologia dello stesso Prescelto. Vinto il primo episodio della serie al supplementare, approfittando delle incertezze dei canadesi, Cleveland ha giocato sul velluto ieri notte a Toronto, trascinata dalla leggerezza del suo leader, consapevole della sua forza e di un matchup favorevole con gli avversari. Ora solo un vistoso sbandamento dei Cavaliers può consentire ai Raptors di rientrare nella serie. Questa edizione di Cleveland ricorda quella delle NBA Finals 2015, in cui James fu costretto a fare a meno di Kevin Love e Kyrie Irving per infortunio, riuscendo comunque a mettere in estrema difficoltà i Golden State Warriors, sotto 1-2, poi vincitori di titolo e serie. Ora come allora, le stelle sono diminuite nella squadra dell'Ohio, ma rimane quella più luminosa. LeBron è rimasto lo stesso giocatore, quello che adora avere la palla in mano e gestire possessi a ripetizione, senza avvertire alcun tipo di pressione. Certo, in difesa la sua presenza è ondivaga, a tratti difficilmente percepibile (ci sono occasioni in cui non rientra nemmeno in transizione), ma ciò che fa in attacco giustifica (per ora) uno sforzo limitato a una sola parte del campo. I Raptors sono il suo bersaglio preferito: vittime di un conclamato complesso di inferiorità, i canadesi non hanno gli uomini per contrastarlo, nè la ferocia e l'intensità per provarci. Situazione plasticamente verificatasi in gara-2, con i giovani OG Anunoby e Pascal Siakam costretti a rincorrere - in senso letterale - il Prescelto, in grado di trovare sempre nuovi modi di fare canestro.
Al lavoro in post, alle triple senza ritmo - ormai in faretra da anni - James ha aggiunto un immarcabile tiro in fade away alla Nowitzki (che manca dell'eleganza del tedesco), che sta facendo ammattire Casey e i suoi. Questa Cleveland ha ridotto all'osso le sue scelte offensive: palla a LeBron, uno contro uno e canestro. In caso di raddoppio, ecco scattare gli assist a ripetizione per i tiratori, da Kevin Love a J.R. Smith, passando per Kyle Korver. Proprio Love ha rappresentato uno dei motivi di discussione all'interno dello spogliatoio dei Cavs: il Beach Boy non vorrebbe giocare esclusivamente da numero cinque, ma la sua presenza in campo come unico lungo consente a James di poter muoversi in uno contro uno con altri quattro esterni con i piedi fuori dalla linea del tiro da tre punti, con tutto ciò che ne consegue in termini di spaziature. Non solo: Cleveland accetta di andare sotto a rimbalzo e in termini di fisicità contro Jonas Valanciunas, ben consapevole che dall'altra parte del campo il lituano non ha la mobilità per reggere i movimenti lontano da canestro di Love. Si spiega così il poco spazio concesso da Tyronn Lue a Tristan Thompson, a tutto vantaggio degli altri esterni dei Cavs, Jeff Green su tutti. Con Serge Ibaka a mezzo servizio, e con un ambiente che vive un pieno psicodramma, Toronto sembra condannata a finire ancora in anticipo la postseason. Causa LeBron James, ma non solo: se dopo anni di tentativi, la chimica tra i vari Kyle Lowry, DeMar DeRozan e due lunghi non ha mai condotto al successo, è evidente che ci siano motivi strutturali che frenano i canadesi, non riconducibili alla lunghezza del roster, che quest'anno ha contribuito alla grande. Dwane Casey ha già provato a spostare i termini del problema su James. "Troppo forte per noi e per tutti", il senso delle sue parole. Quando forse occorrerebbe anche una riflessione sul gioco di DeMar DeRozan e sulla capacità di leggere le partite di Kyle Lowry.