Sembra che gli Dei del basket siano tutti riuniti in trepidante attesa. Tutti raccolti in cerchio divertendosi con il fato, con il destino di una squadra tra le mani. Il cammino, quello di tutte le squadre NBA - ma in generale nel mondo dello Sport - per arrivare all'apice, al titolo, è irto di difficoltà, ostacoli, pericoli, tutti da superare con pazienza, abnegazione, spirito di sacrificio, unità d'intenti. Sembrano tutte bellissime parole, spesso però lanciate al vento, le quali vanno pian piano dissipandosi nell'aria, senza avere mai - o quasi - un riscontro reale di questa teoria. 

Eppure qualcosa in Massachussets, dalle parti di Boston e del TD Garden, tende ad assomigliare sempre più a qualcosa di mistico, contornato di un'aura di sfortuna, di negatività, alla quale tuttavia i Celtics di Brad Stevens si stanno ponendo con clamorosa resilienza. Già, resilienza, perché se alla prima uscita stagionale la squadra perde uno dei pezzi più importanti della rosa, Gordon Hayward, e nel mezzo del cammino nei primi tredici passi stagionali perde per strada, seppur momentaneamente giocatori del calibro di Morris, Horford, Irving, e supera indenne tutte queste avversità, allora c'è davvero qualcosa di magico attorno ai fiumi Charles e Mystic.

Il tutto per giungere a stanotte, con il Garden teatro della sfida tra i Celtics, appunto, reduci da dieci vittorie di fila, e gli Charlotte Hornets, vogliosi di interrompere la striscia positiva dei padroni di casa e violare uno dei templi del basket statunitense. Eppure, le premesse al termine del primo quarto sono tutte apparecchiate nel verso giusto per Kemba Walker e soci: Baynes, involontariamente, colpisce Irving mandandolo al tappeto. L'ultima residua - apparente - speranza dei Celtics esce dal campo sanguinante, non tornerà più a disposizione. Il parziale ospite è stordente, i ragazzi di Stevens accusano il contraccolpo, è palese, fisiologico, realizzano due soli punti in sei minuti. Legittimo, comprensibile. Sembra l'inizio di una gara segnata, che per tre quarti vedrà gli ospiti padroni della scena, prima dell'incredibile coupe de theatre. 

Nelle difficoltà, è noto, risaputo, risiedono e si scoprono le migliori doti, quelle sopra citate. I Celtics si stringono attorno ai due enti superiori che aleggiano sul tetto del Garden: l'orgoglio, il Boston pride, ed il sistema di Brad Stevens, cura unica a tutti i mali del momento. Un sistema fatto di scelte, difensive ed offensive, che prende vita con un paio di giocate di pura energia, spalle a canestro, prima di prendere letteralmente fuoco. La paura, la frustrazione, diventano rabbia, furia agonistica, che Larkin, Rozier, Smart, Brown, Morris e soprattutto Jayson Tatum trasformano in una clamorosa rimonta. Il sistema di gioco mette incredibilmente a suo agio tutti gli interpreti di essere in condizione di risultare pericolosi e protagonisti, annulla e lima al minimo i limiti strutturali della rosa, degli individui stessi. L'esaltazione, l'adrenalina, fanno il resto. 

La storia dello sport è piena di avventure pazzesche, clamorose, ma quello che stanno scrivendo i Celtics in questo avvio di annata, nonostante non sia garanzia di alcun successo conclusivo, ha quasi del paranormale. Facile esaltarsi per le imprese, undici, di fila, messe a segno da Boston, prima della classe nella Eastern Conference nonostante una serie di infortuni che avrebbe messo al tappeto chiunque, senza nemmeno provare a restare in ginocchio. Non i Celtics, non quelli del famoso pride. Questione di orgoglio, questione di mentalità, vincente. Gli Dei del basket, nel frattempo, restano in attesa, ammirano in silenzio.