Texani indigesti ai Golden State Warriors alla prima stagionale. Come era già accaduto lo scorso anno contro i San Antonio Spurs, gli attuali campioni in carica hanno perso ancora all'esordio casalingo alla Oracle Arena, nella notte contro gli Houston Rockets. Ma se dodici mesi fa si trattava di inserire Kevin Durant in un nuovo sistema, il k.o. di poche ore fa ad Oakland ha altri significati, legati in particolar modo all'uscita dal campo per infortunio di Draymond Green e a una condizione fisica precaria, secondo quanto spiegato da coach Steve Kerr nelle interviste post-partita.
I Dubs hanno giocato per lunghi tratti la solita, splendida, pallacanestro offensiva, difendendo però solo per spezzoni di gara, lasciando così una porta sempre aperta per il rientro in carreggiata dei Rockets, più volte parsi al tappeto nei primi tre quarti. Fuori Andre Iguodala, k.o. per problemi alla schiena, Steve Kerr ha inserito presto in campo sia il rookie Jordan Bell che Shaun Livingston, ampliando la rotazione degli esterni anche a Patrick McCaw e Nick Young. Sembrava tutto perfetto nel primo tempo, con SwaggyP on fire dall'arco, Klay Thompson chirurgico e Draymond Green padrone della partita sui due lati del campo. Uniche note stonate, i problemi di falli di Steph Curry e le mani fredde al tiro di Kevin Durant. Abbandonato quasi immediatamente il proposito di schierarsi con un centro di ruolo (Pachulia in campo per onor di firma, poi niente McGee, Looney dentro solo dopo la distorsione al ginocchio di Green), Golden State si è ovviamente adattata al ritmo da sparatoria western dei Rockets, sembrando più completa in tutte la fasi del gioco. Ma ha commesso l'errore di trasformare la sfida in una prova di esibizione, specie quando nel secondo quarto sono fioccati contropiede a favore, derivati dalla splendida difesa di Green e Thompson. Curry è ripartito a tutto gas dal terzo quarto in poi, salvo risprofondare in problemi di falli e ritornare solo per il gran finale, un po' come il Durant a corrente alternata della sua prima da MVP delle Finals. KD ha impressionato più per il contributo (potenziale ed effettivo) in difesa che per le giocate in attacco, dove a prendersi la scena sono stati a rotazione gli Splash Brothers e Nick Young, sotto la sapiente regia di Draymond Green, vero uomo chiave del sistema Warriors sui due lati del campo.
Impegnati a tenere a bada Harden, i Dubs non hanno però mai trovato una reale contromisura al Barba, ma soprattutto a Eric Gordon, confermatosi sesto uomo dell'anno con una gran prestazione, soprattutto in penetrazione. Al resto hanno pensato per Houston P.J. Tucker e Luc Mbah a Moute, non stelle ma portatori d'acqua estremamente funzionali alla causa, in particolar modo in difesa, così come Clint Capela, lungo di verticalità che ha mostrato capacità di ribaltare il lato fino a ieri insospettabili. Con Green out, a Golden State è mancata energia e lettura dei momenti della partita, oltre alla protezione di un ferro rimasto clamorosamente scoperto. Complice la fatica, i Warriors hanno fatto vedere all'NBA l'altra faccia della luna del loro sistema, ovverosia un attacco che da sinfonico diventa disfunzionale se la palla non è mossa con precisione e con tempi perfetti. Turnover in serie hanno dato fiducia a Houston, meritatamente in grado di giocarsi la sfida in un testa a testa punto a punto, deciso da due liberi di Tucker e da un ultimo possesso (non il solo) sciagurato dei californiani. A dimostrazione che anche gli osannati Oklahoma City Thunder dovranno fare i conti con gli Houston Rockets, attualmente prima alternativa occidentale ai campioni in carica, soprattutto dopo aver aggiunto un silenzioso ma comunque importante Chris Paul. Per i Warriors la consapevolezza di avere un roster profondo, con tantissime frecce all'arco di Steve Kerr, ma non un backup di Draymond Green, l'orso ballerino da cui dipendono le fortune di un intero sistema, come già dimostrato nelle Finals 2016.