Secondo un antico adagio NBA, non c'è peggior situazione di quella di una squadra che si qualifica continuativamente per i playoffs, senza disporre però dello status di contender, non avendo alcuna chance di vincere il titolo. E' questa, da anni, la dimensione dei Memphis Grizzlies, franchigia del Tennessee, che dal 2011 frequentano con assiduità la postseason, avendo raggiunto anche la Finale di Conference nel 2013, battuti con uno sweep dai San Antonio Spurs, più tardi beffati dal famoso tiro da tre punti di Ray Allen in gara-6 della serie contro i Miami Heat di LeBron James.
Sono state stagioni competitive quelle vissute dai Grizzlies dell'ultima decade, caratterizzate prima dall'esplosione di Pau Gasol, poi da quella del fratello Marc, attualmente uomo franchigia, con Zach Randolph nel ruolo di talento ritrovato. Succedutisi in panchina i vari Lionel Hollins, David Joerger, e ora David Fizdale, i Grizzlies hanno rappresentato una costante nella selvaggia Western Conference, praticando una pallacanestro per certi versi vecchio stampo, basata sul gioco in post di due lunghi abbastanza tradizionali (Gasol e Randolph, appunto), e affidandosi nel backcourt alle accelerazioni di Mike Conley, divenuto ora uno dei giocatori più pagati dell'intera lega (105 milioni di dollari per i prossimi quattro anni, dopo il quinquennale firmato nel 2016). E' stata la Memphis del Grit and Grind, della tigna e della voglia di non mollare mai, un unicum in un panorama occidentale caratterizzato da talento assortito e diffuso. Ma ai Grizzlies non è mai riuscito l'ultimo passo, quello che li avrebbe dovuti portare al definitivo salto di qualità, per lottare davvero per il titolo. Non sono bastati al riguardo i cambi di allenatore e soprattutto i tentativi di provare a rendere il proprio gioco più veloce e aderente al trend tecnico dell'NBA attuale: impossibile forzare oltre un certo limite le caratteristiche individuali dei singoli giocatori, specie senza dei tiratori affidabili in squadra. Ecco perchè, oltre esecuzione offensiva e difensiva, Memphis non è mai andata, senza trovare quei guizzi necessari a far vincere le serie che si disputano a maggio, contro compagini del calibro di San Antonio Spurs (eccezion fatta per il 2011, quando gli uomini di Hollins si rivelarono al primo turno proprio contro i neroargento) e dei Golden State Warriors (messi comunque in difficoltà nel 2015, avanti 2-1, poi k.o. per 4-2).
La nuova versione dei Grizzlies dell'apprezzato coach Fizdale, ex assistente di Erik Spoelstra a Miami, proverà a cambiare qualcosa, dopo almeno un paio di addii eccellenti, tra cui quello di Zach Randolph, fondamentale nella crescita della franchigia, finito ai Sacramento Kings da free agent (e ora alle prese con problemi di natura diversa), e di Vince Carter, veterano giramondo, anch'egli pronto a svernare in California. Restano dunque Marc Gasol e Mike Conley i giocatori chiave di Memphis: del catalano si conoscono le qualità di attaccante completo, talento sopra la media per un giocatore di quella taglia, mentre di Conley va apprezzata la capacità di migliorarsi anno dopo anno, divenendo una point guard di livello assoluto, nonostante una base di partenza non eccezionale. Via anche Tony Allen, perno difensivo dei Grizzlies di lotta e non di governo, per provare a dare un torno diverso alla squadra, il cui destino si intreccia inevitabilmente con quello di Chandler Parsons, ventottenne small forward ex Florida Gators, esploso con le maglie texane di Houston e Dallas, ancora desaparecido in Tennessee, causa infortuni assortiti. Il contratto di Parsons (intorno ai venticinque milioni a stagione) pesa sulla struttura salariale dei Grizzlies, che dal 2017-2018 si aspettano un netto cambio di marcia da parte dell'ex Rockets e Mavs. Giocatore in grado di giocare anche da numero quattro, ovviamente a certe condizioni, Parsons era stata la scommessa del general manager Chris Wallace nel 2016, per completare un roster che ora viene in buona misura ringiovanito. Alle spalle dei mostri sacri Gasol e Conley, troviamo infatti una serie di giocatori (Mario Chalmers escluso, reduce da un grave infortunio) tra i 21 e i 27 anni, come il lungo di energia Brendan Wright, il talento incompreso Ben McLemore, il mai davvero convincente Tyreke Evans (a una svolta della sua carriera), i fisici James Ennis e Jarell Martin, per non parlare dei giovani playmaker Wade Baldwin e Andrew Harrison. Un roster completato da altri elementi imperscrutabili, come Wayne Selden e Troy Daniels, che dovrà guardarsi dalla nuova competitività di squadre come Denver e Minnesota, per guadagnarsi ancora un posto ai playoffs. In caso di fallimento, ovverosia di risultati sotto la media rispetto all'ultimo lustro, a Memphis è pronta a partire la rivoluzione, dopo una finestra di media competitività che non ha mai condotto alle NBA Finals.