C'era una volta una franchigia capace di rimanere con continuità ai vertici NBA, di vincere due titoli consecutivi nell'era dei Bad Boys (1989 e 1990, trascinati da Isiah Thomas) e uno nel 2004 (con Larry Brown in panchina, i due Wallace, Rasheed e Ben, e Chauncey Billups in campo). I Detroit Pistons di oggi, squadra del Michigan, che dalla prossima stagione saluteranno l'ormai storico impianto del Palace of Auburn Hills, per tornare a giocare a Mo City, presso la Little Caesars Arena, non sono all'altezza dei loro più illustri predecessori, costretti a navigare in un anonimato NBA che ne fa una delle franchigie meno futuribili dell'intera lega. 

Gli ultimi Detroit Pistons. Fonte: Raj Mehta-USA TODAY Sports
Gli ultimi Detroit Pistons. Fonte: Raj Mehta-USA TODAY Sports

Ai playoffs solo nel 2016, eliminati al primo turno a Est dai Cleveland Cavaliers di LeBron James (4-0, sweep senza discussioni), i Pistons hanno raggiunto la postseason una volta nelle ultime otto stagioni. Proprio da quando il Prescelto ha messo le mani sulla Eastern Conference (memorabile la serie del 2007), Detroit ha perso il ruolo di squadra guida del fronte orientale. Passata attraverso scelte dirigenziali rivedibili, la franchigia del Michigan è ora nelle mani di Stan Van Gundy, che ricopre il doppio ruolo di allenatore e presidente delle operazioni cestistiche. Senza grandi risultati in realtà, perchè i suoi Pistons galleggiano da qualche anno tra le squadre che si giocano l'accesso ai playoffs con l'ottava moneta. Il gioco di SVG è predicato, come già ai tempi degli Orlando Magic (in finale NBA nel 2009 contro i Los Angeles Lakers), su un unico lungo di ruolo e quattro esterni, o comunque quattro giocatori di aprire il campo grazie al tiro da tre punti. Difficoltà nei rapporti con lo spogliatoio e un tasso di talento non eccelso hanno impedito sinora a Van Gundy di replicare i buoni risultati della Florida (versione Orlando, perchè a Miami il buon Stan venne silurato nel 2006 da Pat Riley, che lo sostituì alla guida degli Heat, poi divenuti improbabili campioni). Il centro - in tutti i sensi - della squadra sarebbe, ed è, Andre Drummond, ragazzone di 23 anni, a cui lo scorso anno è stato rinnovato il contratto fino al 2021 (player option nel 2020), per un ingaggio che arriverà alla cifra di 28 milioni di dollari. Un azzardo e un eccesso, considerato il ventaglio tecnico a disposizione del centro dei Pistons. Atleta di grande fisicità e verticalità, Drummond non è ancora riuscito a costruirsi un gioco credibile spalle a canestro, diventando spesso un corpo estraneo alla sua stessa squadra, che tra gli esterni si affida invece principalmente a Reggie Jackson, umorale point guard ex Oklahoma City Thunder. Jackson, ventisette anni, non è il playmaker ideale di una squadra NBA. Più realizzatore che facitore di gioco, ha negli ultimi anni dovuto fare i conti con qualche infortunio di troppo e con una personalità difficile, spesso venuta a scontrarsi con quella del suo allenatore. In un contesto tecnico come quello dei Pistons, sarebbe con ogni probabilità più adatta un altro tipo di point guard, magari vecchio stampo, ma a Detroit hanno per ora deciso di non scambiare ancora Jackson, giocatore di lampi ma non di continuità.

Reggie Jackson e Andre Drummond. Fonte: Gregory Shamus/Getty Images

E proprio il reparto esterni è stato recentemente ritoccato da Van Gundy che, pur di avere a propria disposizione un giocatore completo come Avery Bradley dei Boston Celtics (rimpiazzo di Kentavious Caldwell-Pope, free agent che ha scelto i Lakers), ha spedito in Massachusetts uno dei gemelli Morris, Marcus, che fungeva da quattro tattico, da stretch forward che apriva il campo. Con Bradley i Pistons si sono dunque assicurati un difensore sopra la media, oltre che un ottimo tiratore e un buon realizzatore. Poco però per coltivare ambizioni di protagonismo nella Eastern Conference, perchè il resto del roster continua a non essere all'altezza. Il guizzante Ish Smith fa da backup di Jackson, il nuovo arrivato Langston Galloway è pronto a uscire dalla panchina come tiratore puro, specialità in cui eccelle Luke Kennard, rookie da Duke, scelto alla dodici e prospetto più intrigante dell'intera Detroit, insieme a Stanley Johnson, ventunenne ala piccola che sinora non ha rispettato le promesse degli esordi. A completare il pacchetto dei giocatori di riferimento dei Pistons, ecco Tobias Harris, ex Magic, elemento versatile, capace di attaccare il ferro e tirare dall'arco. Dalla sua crescita, come da quella dei più giovani del roster, passano le prospettive di rilancio di Detroit, chiamata a trovare alternative al traballante asse Jackson-Drummond. Il resto fa contorno, da Jon Leuer ad Anthony Tolliver, due numeri quattro tiratori, da Reggie Bullock al lunghissimo Boban Marjanovic (che potrebbe avere più spazio dopo la partenza dell'australiano Aron Baynes, anche lui ai Celtics), passando per gli oggetti misteriosi Michael Gbinije e Henry Ellenson, giovani ma già all'ultima chiamata nel basket NBA che conta davvero. Nuova arena per i Pistons, ma le prospettive sembrano essere quelle degli ultimi anni, in un grigiore che non vuole saperne di abbandonare Mo City.