La notizia è della serata di ieri, Kyrie Irving avrebbe espressamente chiesto una trade direttamente alla proprietà dei Cleveland Cavaliers, una cosa assolutamente impensabile fino alla fine della scorsa stagione, ma che trova le radici in una serie di circostanze sviluppatesi in questa estate che hanno lentamente fatto deteriorare quella che fino a 12 mesi fa era la franchigia alfa della NBA. Stagione tutto sommato positiva quella appena conclusasi, con le finals raggiunte per il terzo anno di fila e con una sconfitta contro i Golden State Warriors, che mai come quest’anno è sembrata inevitabile considerando il livello degli avversari e la comunque ottima serie finale disputata dai Cavs. Sostanzialmente la franchigia dell’Ohio ha dimostrato ancora una volta di essere la padrona incontrastata della eastern conference, con la prospettiva di riconfermarsi tale ancora per qualche stagione, considerato l’innegabile gap tra la compagine allenata da Tyronn Lue e il resto di un est, che mai come in questa stagione imminente, sentirà pesante il paragone con L’Ovest, con alcune stelle come Jimmy Butler , Paul George e Paul Millsap che hanno deciso di abbracciare la sfida rappresentata da quella specie di inferno dantesco che sarà la Western conference della prossima stagione.
Tuttavia dalla conclusione degli scorsi playoff, qualcosa sembra essere mutato in quel di Cleveland, un rapporto consolidato tra società, squadra e città, che sembrava essere indissolubile dopo il titolo del 2016, oggi pare essere più precario che mai, con una squadra che lentamente si sta dirigendo verso la sua completa rifondazione. C’è da anteporre una scomoda verità a tutto questo processo: il frontoffice dei Cavs, ha adottato in questi anni, con compartecipazione della sua stella più rappresentativa LeBron James, una politica societaria volta ad uno e un solo obbiettivo ovvero il vincere subito e il più possibile. Questo lo si evince piuttosto facilmente sia dalla trade che ha portato Andrew Wiggins nel 2014 a Minnesota in cambio di Kevin Love, sia nel progressivo reclutamento di role player e veterani di esperienza pluriennale della lega, anche a cifre importanti. Giocatori come J.R. Smith, Iman Shumpert, Channing Frye, Richard Jefferson e i più recenti Deron Williams e Kyle Korver hanno contribuito a riempire lo spazio salariale dei cavs, arrivando ad imporgli la più onerosa luxury tax della storia dell’NBA, anche con contratti dispendiosi che al contempo hanno elevato l’età media del roster fino alla prossimità dei 30 anni. Nulla di strano se l’obbiettivo è vincere in breve tempo, ma questa è innegabilmente una linea di condotta che nel medio-lungo periodo si è rivelata inevitabilmente controproducente. Oltre al titolo conquistato, sono arrivate altre due finali perse contro i medesimi avversari, quella Dub-Nation che ha mostrato al mondo intero quanto al momento sia ampio il gap con chiunque altro abbia ambizioni di vittoria.
Ci si aspettava mosse in questa direzione da parte dei Cavs in questa estate, mosse volte a ridurre la differenza tra loro e i rivali della baia, ma questo processo è stato rallentato da due fattori: prima di tutto l’addio, più o meno consensuale di David Griffin, general manager della franchigia, che aveva accontentato in questi anni praticamente ogni richiesta di Lebron James, con le conseguenze positive e negative che abbiamo già elencato. In secondo luogo la sostanziale situazione di impossibilità di manovra del front office della squadra dell’Ohio, che trova le sue motivazioni in ragioni molto semplici ovvero, la sostanziale assenza di appetibilità di molti componenti del roster per le altre franchigie. Con eccezion fatta dei big 3, il resto della squadra è formata da veterani per i quali nessuna franchigia scambierebbe asset giovani e di potenziale, men che meno degli all star. Ad immobilizzare ancor di più la situazione è la sempre presente tassa di lusso che continua a gravare sulle tasche del proprietario Dan Gilbert, che tra l’altro pare essere arrivato al culmine della sopportazione economica e non solo.
Da questa situazione a dir poco problematica ecco che si erge prepotente la voce secondo cui Lebron abbia già in mente di abbandonare la nave a fine stagione 2017-18 per una situazione tecnicamente ed economicamente più promettente, come potranno essere i Los Angeles Lakers, agli albori di un processo di risalita al successo che ha spesso caratterizzato la loro storia. “Mal di pancia” quello di LeBron che pare essere dovuto anche al progressivo deterioramento del rapporto con Gilbert, già non idilliaco dai tempi della decision che lo portò a Mami, e ora, secondo le ultime indiscrezioni, ai minimi storici, essendo di fatto James l’artefice primo, con Griffin, delle sanzioni economiche conseguenti allo sforamento del salary cap.
Ed è proprio da qui che le motivazioni del possibile addio di Uncle Drew appaiono più chiare. Irving ufficialmente pare essere stufo di vivere all’ombra di sua maestà LeBron James, stufo di essere il Robin della situazione oscurato dal lungo e ingombrante mantello di Batman. Vorrebbe essere protagonista assoluto, al centro di un progetto tecnico, di cui lui sarebbe il leader, ruolo ,che per la maturità raggiunta in questi anni , il nativo di Mellbourne si sente di poter ricoprire, ma questo ragionamento trova poca consistenza di fronte a una verità: tutte le franchigie nei confronti delle quali Irving ha strizzato l’occhio per questa trade (o almeno quelle con progetti promettenti) hanno già delle stelle, hanno già dei leader e hanno già delle gerarchie abbastanza consolidate che, probabilmente, non muterebbero di molto nemmeno con l’arrivo di Kyrie. Ergo, il prodotto Duke si ritroverebbe di nuovo in un supporting role o, quantomeno, ad essere coprotagonista in una squadra come gli Spurs, dove vi è già il leader silenzioso Kawhi Leonard, o ai Timberwolves, ricchi di giovani stelle e forti del nuovo acquisto Jimmy Butler. È proprio per questi motivi che la ragione ufficiale di rinate manie di protagonismo di Irving sembra essere piuttosto debole, perciò la motivazione potrebbe essere proprio dettata dalla volontà di partenza di James.
LeBron pare essere sempre più convinto di portare il suo talento altrove, per provare ancora una volta la scalata al titolo che a Cleveland pare essere sempre meno probabile e questo lascerebbe Irving da solo in una squadra ad un passo dalla disgregazione, prospettiva non ideale per un ragazzo ambizioso come Uncle Drew, che vorrebbe sicuramente continuare a competere per il premio più ambito, anche a costo di lasciare subito la franchigia che lo scelse come prima scelta assoluta nel draft del 2011. La tesi parrebbe essere confermata dalla datazione della richiesta di Irving, divulgata solo ieri sera da ESPN, ma risalente a una settimana fa, periodo in cui le voci dell’addio di Lebron si sono fatte più forti.
Sicuramente si sta parlando per ipotesi, nulla al momento è stato dichiarato dai protagonisti della vicenda, oltre alle ufficialità divulgate, nulla è trapelato se non un senso a metà tra la delusione e la frustrazione da parte del re per la decisione del suo, probabilmente ex braccio destro, alla quale Lebron pare comunque non volersi opporre. La quesione potrebbe anche essere più complessa di quanto pensiamo e abbiamo descritto, ma una cosa è certa, Cleveland sta assumendo sempre di più le fattezze di un Titanic in fase di affondamento, da molti punti di vista. Delle ultime ore è la notizia della nomina a nuovo General Manager del giovane Koby Altman, ex collaboratore di Griffin, al quale sarà dato il compito di provare a risanare un ambiente parzialmente compromesso o eventualmente di trovare possibilità vantaggiose da una trade che coinvolga Irving. Un battesimo col fuoco per Altman al quale sarà richiesto un compito che sarebbe difficile per un veterano dell’executive NBA, figuriamoci per un neofita nel ruolo di General Manager, in una squadra che a soli 12 mesi dalla terra promessa, a meno di miracoli da parte del nuovo GM, si ritrova pericolosamente vicina al baratro dell’implosione.