Steph Curry, Kevin Durant, Klay Thompson. Sono loro a finire in copertina dopo ogni vittoria dei Golden State Warriors, per talento e capacità di segnare con continuità. Eppure, il giocatore chiave sui due lati del campo per la squadra di Steve Kerr è senza alcun dubbio Draymond Green, l'orso ballerino da Michigan State, vero uomo barometro di una squadra che vive di equilibri sottili. Proprio come Green, giocatore nevrile, in alcuni casi sporco, senza dubbio controverso, amato dai suoi tifosi, detestato dai detrattori. 

Draymond Green e J.R. Smith. Fonte:  CreditKen Blaze/USA Today Sports, via Reuters

Le quattro gare sinora disputate alle NBA Finals 2017 dimostrano quanto sia vitale per Golden State l'apporto di un Green sotto controllo e, viceversa, quanto possa essere letale, il contributo di un Green pronto ad accendersi a ogni fischio arbitrale, a ogni curva negativa di una sfida che l'ex giocatore degli Spartans sente in maniera particolare. I due volti di Draymond Green possono essere riassunti agevolmente dividendo in due la serie e sottolineando il differente approccio in campo mostrato alla Oracle e alla Quicken Loans Arena. Pur segnando relativamente poco - è battezzato al tiro dai Cleveland Cavaliers, che gli concedono conclusioni dall'arco - Green non è solo il vero playmaker dei Warriors, ma è anche la chiave difensiva della squadra di Steve Kerr. Un vero e proprio jolly, che consente ai californiani di poter giocare indifferentemente con un quintetto tradizionale (Pachulia o chi per lui da centro) o con la nuova versione del death lineup (con lo stesso Green da numero cinque e quattro esterni, tra cui Iguodala e Durant nel frontcourt). Grandissimo difensore di uno contro uno, l'orso ballerino dà il meglio di sè in aiuto e come lungo capace di cambiare sugli esterni con un'efficacia sorprendente. La miglior versione di Green in queste Finals si è vista proprio nei primi due episodi della serie, in cui il suo lavoro difensivo ha rallentato il mostruoso attacco di Cleveland, consentendo viceversa ai Warriors di poter spingere sull'acceleratore in transizione, giocando la pallacanestro più adatta alle loro caratteristiche. Situazione capovolta in Ohio, dove Green è ricascato in problemi di falli, facendo dentro e fuori dalla panchina, per poi rischiare addirittura l'espulsione in gara-4 (nel famoso "misunderstanding" per doppio tecnico), e beccandosi un flagrant di tipo uno che ha fatto tremare i tifosi californiani.

Draymond Green e Steve Kerr. Fonte: Ronald Martinez/Getty Images

Un Green fuori controllo è il peggior nemico dei Warriors: la sua instancabile attività sui due lati del campo si trasforma in frenesia, in decisione affrettate e sbagliate, in contatti forzati sanzionati dagli arbitri, in un atteggiamento provocatorio che favorisce gli avversari e punisce i compagni di squadra. Non solo. Il Green versione Quicken Loans Arena - e delle polemiche con i tifosi dei Cavs - risulta molto meno efficace anche nella metà campo offensiva, in cui non ha il compito di trattare la palla e di provare a esplorare il post-basso per poi riaprire sul perimetro e dare il là all'ormai noto "flusso" dell'attacco di Steve Kerr. Passatore sopra la media per un giocatore di quella stazza, Green resta dunque sul crinale dell'instabilità emotiva. Un fattore che in alcuni casi maschera alcuni dei suoi limiti tecnici, e che in altri viceversa li mette a nudo davanti all'intero mondo NBA. Come altri elementi di Golden State (Curry in primis), il buon Dray è infatti esaltato dal sistema di pallacanestro di cui è interprete: quando però, per motivi di gioco o emotivi, il meccanismo di Kerr si inceppa, ecco palesarsi tutte le difficoltà "personali" di alcuni membri dei Dubs. Così come Curry sembra un giocatore normale una volta espunto dal contesto, allo stesso modo Green può mostrare lacune strutturali. Lungo intelligente, ma non verticale, stoppatore di tempismo ma non di atletismo, attaccante di flusso ma non estemporaneo (zero gioco in post, range di tiro limitato "solo" all'arco, da cui è storicamente alterno). Tutti fattori che dimostrano quanto il numero 23 dei Warriors abbia bisogno di rimanere sempre all'interno del sistema, da un punto di vista tecnico ed emotivo. Quando ciò non accade, Golden State è nei guai, come ampiamente dimostrato da gara-3 ("rubata", per usare un'espressione di gergo NBA , grazie a un paio di capolavori di Durant e ad altrettanti errori dei Cavs), e da gara-4 (persa malamente) di queste Finals, che da cavalcata trionfale potrebbero tramutarsi in un altro incubo per i ragazzi della Baia.