Quarantottore per tirare il fiato, per rivedere giusto quelle sette o otto volte ancora lo splendore del Basket in tutta la sua forma. Lo spettacolo di Natale, da Est ad Ovest del Globo, non solo degli Stati Uniti d'America, è andato in scena alla Quicken Loans Arena. La tensione palpabile, come se quelle Finals non fossero mai finite. Perché così è, nella testa di chi c'era, di chi c'è, di chi non c'è più ed anche nella testa di chi, per la prima volta, ha fatto parte di questo incredibile spettacolo. Il Verdetto - perché la maiuscola in tali casi è assolutamente d'obbligo - sebbene sia discretamente prematuro da dire, sembra essere stato emesso: si gioca, si battaglia, si lotta e alla fine vincono i Cavaliers. 

L'animo, scalfito, oramai da qualche mese dei Golden State Warriors, sembra essere rimasto tale. Inevitabile, forse. Inesorabile, altrettanto. I vecchi fantasmi che sembravano essere stati scacciati dall'arrivo di Durant. Il ritorno di questi ultimi che, sotto forma di LeBron o Irving che sia, hanno ancora una volta giocato un pessimo scherzo agli ex Campioni NBA. C'è ancora qualcosa, nella testa, che non è stato dimenticato. Difficile, se non impossibile, rimuoverlo. Il ribaltone di giugno è nella testa di un frastornato - e malconcio - Curry, in quella di Thompson, in quella dei frustrati Green e Iguodala. Chi brilla, nella notte della rivincita, è il nuovo che avanza, l'uomo ingaggiato per vincere, per tornare a vincere. La sua, di testa, è sgombra, lo si vede dai primi palleggi, dai primi movimenti. La poesia, celestiale, è quella solita. La grazia del trentacinque viene soltanto messa in ombra da una rimonta che, nei minuti finali, ha fotografato lo stato attuale delle cose tra le due contendenti. 

Eppure l'infiltrato ci aveva messo lo zampino, nel corso della gara, per scacciar via le nubi. Al tavolo dei Grandi, Durant ci entra di diritto, sebbene alle dita sia ancora vergine. I Cleveland Cavaliers soffrono la novità, soffrono l'ecletticità e la singolarità degli schemi altrui. Il potenziale dei Warriors è illimitato, reso vulnerabile solo e soltanto da quegli scherzi della mente. Di contro, invece, una squadra in pieno controllo di sè stessa, delle proprie qualità, delle proprie individualita, resa ancor più forte da un successo, quello di qualche mese fa, che ne ha rafforzato ulteriormente le certezze. Un anello che rende invincibile, anche quando l'inerzia ed il punteggio sembrano voltarti le spalle. 

Nel momento del maggiore bisogno, ancora una volta, il rebus, la scheggia impazzita, è quella del miglior attaccante attualmente esistente sul pianeta terra. Kyrie Irving non è più soltanto un secondo violino, sarebbe ridicolo oltre che oltraggioso guardarlo in questo modo. Si separa dal resto dei protagonisti, decide in cuor suo che la gara deve cambiare. Il tutto, ovviamente, reso tremendamente più facile dallo stato di onnipotenza che James ed i suoi si portano in dote dalla notte dell'upset più clamoroso degli ultimi anni. Uno stato mentale che, ad oggi, fa tutta la differenza del mondo in campo: convinzione e libertà di spirito da una parte, disperazione e frustrazione dall'altra. Lo stato d'animo, soprattutto degli sconfitti, che condiziona le giocate, che determina comportamenti e modi di fare: nel coprirsi il volto con l'asciugamani, nell'atto del sorpasso finale firmato da Irving, la fotografia del momento di Curry e dei Warriors in generale. 

Una difficoltà che non si può battere sul campo, inconscia, frutto di ansia e paure. Le stesse che hanno irretito Golden State ad un passo dalla doppietta e che, oggi, sembrano frenare i Warriors nella rincorsa al titolo perduto. Il Verdetto di Natale, per ora, sembra questo. Si gioca, si battaglia, si lotta. Ma alla fine, vincono i Cavaliers. Ai Warriors smentire tale assunto. Sarà così anche a Giugno?