Chi si è avvicinato al gioco tra il finire degli anni novanta e i primi duemila non ha affatto trascorso un'estate facile. Il ricambio generazionale della NBA è naturale routine, ma andrebbe sottoposto a dosi più leggere. The league nel giro di pochi mesi ha perso tre maestri, tre icone, tre leggende. Tre addii differenti di tre futuri Hall of Famers. In principio fu Kobe, un colpo attutito sul lungo periodo di un'intera stagione. Poi fu Duncan, in silenzio come gli si addice. In ultimo, ieri sera, Kevin Garnett, tramite un video postato sul suo profilo Instagram. Farewell.
Difficile interpretare KG. Uno controverso. Esserlo non si accompagna automaticamente ad epiteti negativi, nonostante il figlio del South Carolina si sia spesso reso protagonista di episodi al limite. La causa scatenante è sempre stata la sua voglia di vincere, di dominare l'avversario psicologicamente ancor prima che fisicamente, aspetto che l'ha reso indiscusso re del trash talking, spingendolo anche oltre in più d'una situazione (celebre la querelle con Villanueva, ma non solo). In ogni caso, ridurre una leggenda a questo dettaglio equivarrebbe ad una sottostima del personaggio, e, ancor prima, della persona.
I numeri, per quanto strabilianti possano essere, lasciano sempre il tempo che trovano. Non descrivono realmente la grandezza di ognuno, o quantomeno non in modo completo. Quelli di Garnett sono a dir poco da brivido, ma leggerli non aiuta a capire chi e cosa abbia rappresentato per il gioco. Il dominio nel Minnesota dei primi anni di carriera non è altro che un prelibato antipasto. Il primo piatto si accompagna all'amaro in bocca che solo un'eliminazione ai playoff da seed #1 può lasciare, soprattutto nell'anno da MVP, in quel maledetto 2004 nel quale i lupi sembravano avere le carte in regola.
L'anello arriva a Boston, nel 2008, nella prima edizione storica dei big three di cui si possa avere memoria nell'era moderna della palla a spicchi. Pierce, il padrone di casa. Allen, il tiratore implacabile. Garnett, semplicemente, il leader. Lui cresce Rajon Rondo sotto la sua ala e lo fa diventare uno dei playmaker più imprevedibili, lui rende Perkins un giocatore di sistema, lui trasmette la forza ai compagni, l'input in più per arrivare alla vittoria. Per averne conferma è sufficiente leggere interviste dei membri di quei Celtics dell'annata 2007/08, quella del titolo, prima dell'epurazione lenta e a tratti necessaria delle estati seguenti.
Garnett si sposta a Brooklyn negli anni a seguire, per poi tornare a Minnesota. Casa. Gioca, sì, ma sa prima di tutti che la sua carriera è giunta al capolinea. Le sue ginocchia non riescono a sostenere il peso della sua grandezza, in campo le presenze sono più che centellinate. KG gioca un'altra stagione, la scorsa, soprattutto in onore di Flip Saunders. "Gioca" forse è una parola grossa, sarebbe più corretto dire "guida". Guida i giovani, cerca di imprimere loro una mentalità che in pochi possono vantare. Una mentalità vincente, basata sulla determinazione e sul non mollare nemmeno un centimetro. Non compiere mezzo passo indietro, metterci sempre la faccia, oltrepassare il limite.
La sua forza, d'altro canto, è sempre stata questa. Alla tecnica e all'intelligenza cestistica ha sempre affiancato l'energia, la voglia di spaccare il mondo con le proprie mani. L'eredità di Garnett al basket non riguarda l'ambito dello stile di tiro, nemmeno dei movimenti in post, nemmeno della classe, bensì la grinta, in ogni singolo particolare. Vederlo in campo spinge a dare tutto sé stesso, come è stato in grado di fare lui nella sua ventennale carriera. Una leadership che sale da dentro, naturalmente, e automaticamente migliora chiunque gli stia a fianco. Non sarà più manifestata sul campo, ma sarà ben impressa nella mente di chiunque l'abbia potuta ammirare almeno una volta per quei famigerati quarantotto minuti. E, per certo, avendo appreso qualcosa. Perchè di fronte a Kevin Garnett restare indifferenti è quasi impossibile.