Cambiare rimanendo se stessi. Per quanto ossimorica possa risultare, questa espressione sarebbe la sintesi più adeguata del processo attuato negli ultimi anni dagli Houston Rockets. Da quando, nell'ottobre 2012, una trade con OKC portò in bianco-rosso James Harden in cambio di Kevin Martin, Jeremy Lamb ed una manciata di scelte al draft, l'intelaiatura dei texani è sempre stata costruita attorno alla barba più famosa dello sport mondiale.
Sotto la guida di Kevin McHale, head coach dal 2012, i Rockets hanno seguito diverse linee guida: su tutte l'eliminazione del mid-range shot, il tiro dalla media, esasperando le conclusioni da tre, soprattutto nei primi anni; in seconda battuta, la responsabilizzazione di Harden, vero e proprio punto di riferimento in attacco. Ecco, il complemento di stato in luogo è fondamentale, per ovvi motivi: a dividere il numero 13 dal titolo di MVP, nonché dall'essere un vero e proprio fattore sul lungo periodo, è la sua oggettivamente scarsa applicazione difensiva. Rotazioni appena accennate, posizioni sbagliate, rientri blandi e chi più ne ha più ne metta. Il front-office texano pensò di ovviare a tutto questo portando nella città della NASA Dwight Howard come protettore del ferro. Operazione decisamente poco riuscita, complici i rapporti conflittuali tra il gigante ed il suo head coach, ma anche la disputa (celata più o meno bene nel corso dei mesi) con lo stesso Harden, poco incline a dividere onori ed oneri del ruolo di leader nello spogliatoio. Senza dimenticare, comunque, i ridondanti problemi alla schiena che tormentano l'ex-Lakers impedendogli oramai da tantissimo tempo di esprimersi al 100% sul medio-lungo periodo. Attorno alla coppia Howard-Harden sono arrivati tanti comprimari: dalle scommesse (Omer Asik e Jeremy Lin nei primi anni, Josh Smith e Ty Lawson di recente) ai giocatori “di sistema” come Trevor Ariza o Corey Brewer e Pat Beverley, spesso cruciali quando le stelle si oscurano, fino ai giovani mai realmente esplosi (Johnson, Jones, Caanan, Motiejunas o i più recenti Capela e Harrell).
Alle porte della nuova stagione, quindi, i Rockets arrivano con poche certezze: una su tutte, quella di voler fare meglio dello scorso anno, caratterizzato dalla bufera dell'esonero (dopo appena una dozzina di partite) di Kevin McHale, rimpiazzato dal “traghettatore” Bickerstaff, ma anche quella alimentata dai media attorno a James Harden e Dwight Howard. Nel complesso, i razzi texani hanno mantenuto un andamento terribilmente altalenante, senza trovare mai la forma giusta per evitare di alternare vittorie convincenti a sconfitte a dir poco arrendevoli. Risultato? Playoffs acciuffati all'ultima partita delle 82 di regular season e sonora sconfitta per 4-1 nel primo turno contro i Golden State Warriors, nonostante l'infortunio di Curry.
Durante l'offseason è arrivato il primo segnale di svolta: Mike D'Antoni è il nuovo head coach. L'italo-americano può vantare un passato sulle panchine (tra le altre) dell'Olimpia Milano, dei Los Angeles Lakers ma soprattutto degli spettacolari Phoenix Suns degli anni '00, guidati da Steve Nash e dal celebre motto “seven seconds or less”, al massimo sette secondi, capace di fruttare un basket spumeggiante e votato all'attacco, con quello stile fatto di scambi rapidi, tanto movimento e preferenza per il tiro dall'arco che finirà per influenzare tutta la NBA da quel momento ad oggi. Proprio da qui dovrà ripartire D'Antoni, che potrà contare su uno dei migliori interpreti al mondo: James Harden ha accolto col sorriso il cambio al timone di comando. Risolto in maniera drastica il rapporto con Howard (spedito nella natale Atlanta), firmato un quadriennale al massimo salariale di 118 milioni di dollari, ora il Barba è considerato il sovrano indiscusso della fase offensiva, complice appunto uno stile di gioco che esalta le sue caratteristiche: iniziative personali, tiri forzati e tanti tentativi dall'arco nei primi secondi dell'azione. Il rovescio della medaglia, però, è la fase difensiva: difficilmente D'Antoni riuscirà a cambiare l'approccio del 13 sotto al proprio canestro. D'altronde, allo stesso coach è sempre stato imputato di prestare attenzione in maniera inversamente proporzionale alle due metà campo. Più probabile, invece, che la soluzione sia altrove: creare attorno ad Harden un quintetto che possa supportarlo in attacco ma soprattutto “riempire” i suoi vuoti difensivi.
Da un lato l'acquisizione di Ryan Anderson ed Eric Gordon dai Pelicans assume senso, per aumentare la pericolosità dei penetra-e-scarica e poter aggiungere altre su due bocche da fuoco continue dall'arco a Trevor Ariza, con gli exploit di Beverley e Terry da non sottovalutare. Più perplessità invece desta il reparto lunghi: Nené non è un realizzatore affidabile, Donatas Motiejunas, nonostante non sia più un ragazzino (classe '90) non è ancora una grande minaccia né dalla corta né dalla media distanza. Per questo con ogni probabilità ci sarà bisogno dell'esplosività di Clint Capela, che dovrà usare la tanta fiducia riversata su di lui dalla trade di Howard per “incollare” tra loro le fiammate e trasformarle in prestazioni alll'altezza lungo tutta la stagione. Punto di domanda ancora più grande è quello di Montrezl Harrell, arrivato con la trentaduesima scelta al draft 2015: il talento per farlo diventare una “steal of the draft” c'è, ma sta a Coach D'Antoni incanalarlo nella giusta maniera per plasmare un giocatore che sia qualcosa in più di schiacciate e rimbalzi offensivi.
Nell'altra fase di gioco, invece, tanto conterà Patrick Beverley: fallito l'esperimento Lawson, la guardia di scuola Arkansas dovrebbe tornare in quintetto, con il compito di fornire tutta la “garra”, l'intensità e la pressione che servono sul portatore di palla avversario, magari limitando il nervosismo e la tensione che spesso lo portano fuori giri. Anche in questo settore Ariza è una sicurezza di buone prestazioni: niente di stellare, ma l'applicazione tattica è quella giusta. Difficile invece pensare che qualcuno dei nuovi possa fare la differenza: Gordon e soprattutto Anderson non hanno mai brillato per intensità spalle a canestro, mentre Nené, unico vero protettore del ferro in roster, è oramai in fase discendente alla quindicesima stagione in NBA, e da oltre cinque anni non gioca una stagione regolare oltre le 67 presenze.
Insomma, il front-office dei Rockets sembra aver limato tante delle contraddizioni che caratterizzavano la squadra, la quale ora ha un allenatore (al momento) spalleggiato da tutti, un leader indiscusso e tutelato sia in campo che in sede contrattuale, un sistema di gioco chiaro e coraggioso ma adatto agli interpreti. L'annoso problema, però, rimane: come può avere ambizioni di postseason una squadra che, venendo dal ventunesimo posto nella lega per efficienza difensiva della scorsa stagione, ha perso il suo miglior difensore e non è riuscito a rimpiazzarlo né a rinforzare con sicurezza altre sezioni del roster? Il paradosso è degno del miglior Zenone, ma se D'Antoni ed il suo staff dovessero riuscire dove i loro predecessori hanno fallito, a maggio il mondo NBA potrebbe dover fare i conti con una sorpresa. Altrimenti, in Texas c'è già chi ipotizza un clamoroso tanking...