A quanto pare gli haters, termine anglosassone in cui nell'ambito dello sport si indicano i detrattori (letteralmente coloro che odiano), dalla prossima stagione potranno cambiare indirizzo. Non più a Cleveland o in qualsiasi altra squadra in cui giochi LeBron James - a lungo perseguitato senza un valido motivo - ma ad Oakland, California. Il trasferimento di Kevin Durant ai Golden State Warriors ha infatto modificato la percezione della squadra di Steve Kerr, inizialmente presa a modello per la costruzione di un gruppo vincente e divertente, ora considerato un superteam con troppi grandi giocatori tutti insieme.
Sembra esserne consapevole Klay Thompson, lo Splash Brother numero due, ora impegnato nella spedizione olimpica di Rio de Janeiro con Team USA, selezione in cui quest'estate milita anche il suo nuovo compagno di squadra ai Warriors Kevin Durant: "Penso che ci sia una certa mancanza di rispetto da parte delle persone che utilizzano il termine sacrificio per descrivere me e la nostra squadra - ha detto Thompson in un'intervista rilasciata al sito The Vertical - sacrificio perchè ora in gruppo c'è anche Kevin? Tutti noi vogliamo giocare bene e vedere i nostri compagni fare altrettanto, ma di certo io non mi sacrificherò, perchè il mio gioco non cambierà. Non sta cambiando neanche qui in nazionale. Continuerò a cercare di fare canestro, a prendermi i miei tiri, a uscire dai blocchi e a fare il mio gioco. Voglio vincere e divertirmi ogni volta che metto piede in campo. La regular season Nba può essere banale ogni tanto: ottantadue partite sono davvero tante e ci si può annoiare. Ora però noi dei Warriors possiamo sfruttare il fatto di essere la squadra più odiata del momento per tirare fuori il meglio di noi stessi e rimanere sempre sulla corda ogni sera. Credo che sarà un'esperienza divertente andare in trasferta sui campi dei nostri avversari, con i tifosi delle altre squadre che ora odiano ciò che abbiamo costruito". Utilizzare l'odio sportivo come propellente per il riscatto, sembra questo il nuovo stimolo di Klay Thompson.
Qualcosa che può funzionare nel breve periodo, ma che alla lunga logora chiunque. L'atteggiamento "noi contro il mondo" è tipico del panorama sportivo internazionale, un modo per caricarsi di fronte alle avversità e per compattarsi all'interno, ma richiede una presenza emotiva costante, che si trasforma ben presto in stress, nervosismo e, soprattutto, pressione. Proprio quella che i Golden State Warriors hanno dimostrato di non saper reggere sul più bello, avanti 3-1 nelle scorse Nba Finals contro i Cleveland Cavaliers: al di là della grande rimonta firmata LeBron James, i californiani hanno subito un'involuzione tecnica e psicologica probabilmente iniziata con la sospensione di Draymond Green per gara-5. Quella sensazione di essere stati in qualche modo defradauti ha creato un ambiente di sospetti e veleni, che si è aggiunto alle difficoltà tecniche di una serie da giocare contro la squadra di LeBron James. Gli ultimi cinque minuti della decisiva gara-7 sono stati esplicativi al riguardo: Golden State, da due anni ormai abituata a far circolare uomini e palla, si è ritrovata bloccata e in panne, come paralizzata dalla tensione, dando vita a un finale senza canestri dal campo che ha poi premiato gli avversari sul parquet della Oracle Arena. Iniziare con tale anticipo una sfida a distanza mediatica con gli avversari può essere solo logorante per i Warriors, che di tutto avrebbero bisogno fuorchè di un'altra regular season disputata a tutto gas (come l'ultima, quella del record). A Thompson ha comunque risposto Durant, entrando nel merito del gioco di Golden State con parole di circostanza: "Voglio che Klay rimanga se stesso, non deve cambiare. Solo le partite diranno quali e quanti tiri potrà prendersi. Potranno esserci gare da una dozzina di tiri per me, altre da otto-nove tiri per Klay, magari altre ancora da venticinque per Steph, con un flusso diverso di volta in volta".