La decisione, preceduta da un'attesa spasmodica che ha pervaso tutto il mondo Nba, è presa. Kevin Durant giocherà almeno nei prossimi due anni con la maglia dei Golden State Warriors (54.3 milioni di dollari complessivi, con opzione per la terza stagione, secondo quanto riportato da Marc Stein di Espn), dopo aver disputato un'intera carriera agli Oklahoma City Thunder (dal 2007, inizialmente Seattle Supersonics). L'annuncio è stato dato personalmente da KD, che così si è espresso sul Player Tribune: "Per questa free agency mi ero prefisso di basare la mia decisione sulle potenzialità di crescita professionale, come giocatore, attraverso un indirizzo che mi ha sempre guidato verso la giusta direzione. Ma sono anche arrivato a un punto della mia vita in cui è ugualmente importante cercare un'opportunita che mi possa far crescere come uomo: abbandonare le mie comodità per confrontarmi con una nuova città e un nuovo ambiente, che mi offra la possibilità di poter contribuire ai massimi livelli. Ecco perchè dalla prossima stagione mi unirò ai Golden State Warriors. Sono nato a Washington D.C., ma sono diventato uomo a Oklahoma City. Non ci sono parole per esprimere cosa quella comunità e quella franchigia abbiano significato per me, e cosa ancora rappresenteranno nella mia vita. I ricordi, le amicizie, vanno al di là della pallacanestro, e sono stati proprio i rapporti umani a rendere questa decisione così difficile. Mi dispiace sapere che con questa scelta deluderò molte persone, ma credo di stare facendo la cosa giusta a questo punto della mia vita e della mia carriera".
Durant ai Warriors è probabilmente la conclusione più logica dell'intera vicenda, forse la meno romantica e affascinante, e non solo dal punto di vista dei tifosi dei Thunder. Sarebbe stato bello vederlo ancora con la maglia di OKC, per provare a ottenere ciò che non è mai stato conquistato in questi anni, oppure con quella dei Boston Celtics, franchigia gloriosa che sta gradualmente risalendo la china. Meno verosimili gli approdi a Miami, in una squadra attualmente non competitiva per il titolo, e a Los Angeles sponda Clippers, forse per il clima di perenne confusione che si vive da quelle parti. Neanche i San Antonio Spurs hanno esercitato il loro fascino di organizzazione modello su Durant, quantomeno non al punto da convincerlo a vestirsi di neroargento. Chissà, sarà stato Jerry West, che gli ha parlato a lungo al telefono ieri per spiegargli quali benefici potesse trarre dall'inserimento in un nuovo sistema di pallacanestro, a far leva sull'istinto primordiale dei campioni: vincere per non essere dimenticato. E nessun'altra squadra come i Golden State Warriors poteva garantirgli un riscatto immediato, una chance di vincere il titolo Nba per la prima volta in carriera già dalla prossima stagione. Arriva in una Oakland frastornata, Durant. In una Baia spazzata via dal vento impetuoso di LeBron James, che ne ha minato certezze e spento sogni con una rimonta improbabile. Ecco perchè i Warriors avevano bisogno di Durant e viceversa: una scossa, emotiva più che tenica, per riprendersi dalle rispettive disavventure.
KD ha provato a vincere per ben cinque stagioni (dal 2012 in poi realmente competitivo) con la maglia degli Oklahoma City Thunder. A volte ci è andato vicino, altre molto lontano. Con o senza James Harden, con o senza Russell Westbrook (infortuni ai playoffs, il vero rimpianto di questi anni di Sam Presti). Evidentemente ha pensato che il suo tempo a OKC era scaduto, che tutti i tentativi disponibili erano andati a vuoto, nonostante il futuro potesse essere ancora luminoso. In alcuni casi si sente il bisogno di cambiare per rimanere se stessi, per esprimersi al meglio senza i ricordi dolorosi dei fallimenti, che come un fardello insopportabile si ripresentano al momento della verità. A Oakland Durant troverà una squadra collaudata, che ha già in Steph Curry il suo punto di riferimento, fino a un mese fa l'uomo copertina di un'intera lega, e in Klay Thompson e Draymond Green due giocatori unselfish, non egoisti, superstar al servizio del gruppo. Ma soprattutto troverà Steve Kerr, un allenatore che non ha paura di gestire grandi giocatori e che crede nel movimento di uomini e palla. E' Kerr ad aver fatto grandi i Warriors di questo biennio, non viceversa. Ci proverà anche con Durant, che dovrà rinunciare ai trenta tiri a partita di cui disponeva ai Thunder, oltre agli isolamenti chiamati per lui. Non sarà facile, perchè qualsiasi risultato diverso dal titolo Nba sarà un fallimento, e perchè la conquista dell'anello potrebbe essere accompagnata dalla litania di chi lo accuserà di aver voluto vincere facile. Sfumature, opinioni, personalizzazioni. Che fanno parte del gioco. Lo sa Durant, come lo sanno i Warriors. Mentre a Oklahoma City ci si prepara all'anno zero, perchè nello sport il passato rischia sempre di essere cancellato in un momento. Un passato di cui ha fatto parte Russell Westbrook, ora possibile pedina di scambio per una dolorosa ricostruzione.