Oltre il parquet e il rettangolo sopra disegnatovi, oltre la semplice concezione di pallacanestro, oltre la mera essenza del gioco, oltre i libri dei record e gli albi, oltre un anello al dito e un trofeo personale in più in bacheca, oltre la città di Cleveland e la maledizione, oltre la forza dei numeri propria e degli avversari Warriors, oltre la NBA stessa. Nella versione 2016 delle Finals, LeBron James è semplicemente andato oltre, spiccando il volo e atterrando sulla cima dell'Olimpo della palla a spicchi, tra le leggende. A 32 anni il figlio dell'Ohio si è compiuto, è arrivato dove tutti si auspicavano, tutti chiedevano, quasi pretendevano: il re si è seduto sul trono, se ne è conquistato il diritto dopo anni passati a rispondere a critiche, quelle di chi lo vedeva solamente come un fenomeno non-vincente.
La serie disputata dal prescelto non può essere descritta né con le statistiche, che siano base o analytics, né raccontata a parole. Il dominio che James ha mantenuto sul gioco e sulle partite per la stragrande maggioranza dei minuti da gara-5 in poi sfiora l'imbarazzo per compagni e avversari, è forse più tangibile per chi come me e come molti altri si è trovato ad ammirarla in poltrona, o meglio ancora a palazzo per i pochi fortunati: l'impressione che ad ogni possesso potesse accadere un evento che avrebbe permesso a ognuno di esclamare "we are all witnesses", per noi italiani temerari e amanti della notte quello che suona la sveglia quando l'occhio si fa meno vispo. Forse è questa la miglior misura possibile della greatness che contraddistingue chi può sedersi alla tavola rotonda del gioco e chi no.
Sarebbe però un errore limitarsi al momento della partita per distinguere questi pochi eletti. La serie finale di James non è infatti iniziata alla Oracle Arena di Oakland alle 18 ora locale del 2 giugno 2016, come è facile pensare. In questo senso è accorso in nostro aiuto Richard Jefferson con il suo articolo sul Players' Tribune, "Who we are". All'inizio, prima dello Zero Dark Thirty - 23 activated twittato dal nativo di Akron, durante una cena di squadra, LeBron ha regalato a ogni compagno un memento per ricordare loro l'importanza del proprio ruolo e dell'obiettivo principe. Un gesto tanto piccolo quanto prezioso, di un tal peso specifico forse incalcolabile per gli stessi teammates. He knows, Richard.
Sa anche quando e come coinvolgere i compagni, al momento giusto. Personalmente, avevo pronosticato un classic JR da trenta in una notte e tanto anonimato, invece LeBron ha saputo ritagliare lo spazio giusto anche per l'ex Knicks, così come per chiunque, compreso Kyrie Irving, meraviglioso secondo violino che avrebbe meritato tre premi di MVP per come ha disputato la serie finale, ma che è altrettanto cosciente e riconoscente della e verso la forza del suo leader col 23. La gratitudine per averlo portato sul tetto del mondo va oltre a un premio in bacheca, da parte di tutti i compagni, come stanno a simboleggiare gli abbracci finali e i tanti labiali intravisti dalla telecamera.
"Thank you". Poche semplici parole dei compagni alla loro guida, alle quali mi sento di unirmi, come immagino anche tanti altri NBA-diseased faranno. Il terzo titolo a fronte di quattro sconfitte, anche se gli unici capi d'accusa possono essergli mossi solo per la débacle del 2011, è il più bello di tutti, perchè ora il gorilla sulla spalla non c'è più. Cleveland rocks, finalmente. Non era vincere un anello il problema, era vincere questo anello. E non oso immaginare quale versione del re apparirà ai nostri occhi dalla prossima stagione, senza un peso su quelle spalle sufficientemente forti da sostenerlo, ma che senza dubbio ora si sentono più leggere e libere. Forse da re diventerà imperatore, posto che già non lo sia. Un imperatore talmente forte e potente che neanche Tacito nei suoi Annales avrebbe potuto prevederlo.