Chissà, non fosse entrato Steph Curry nella ormai famosa gara 4 di semifinale playoff della Western Conference, i Portland Trail Blazers starebbero ancora giocandosi le loro carte contro i Golden State Warriors, portando la serie per le lunghe. Curry o non Curry, la stagione appena conclusasi è stata comunque un successo per la franchigia dell'Oregon, data da molti in smobilitazione l'estate scorsa, quando a lasciare il Moda Center furono quattro quinti del quintetto base, pezzi da novanta come LaMarcus Aldridge, Wesley Matthews, Nicolas Batum e Robin Lopez.
Eppure non si tratta di una favola, termine ormai abusatissimo nella retorica sportiva italiana, nè di un miracolo, semmai di una programmazione riuscita con largo anticipo sulla tabella di marcia. Una volta compreso che trattenere Aldridge sarebbe stato impossibile, il general manager Neil Olshey (ex executive dei Los Angeles Clippers) ha infatti varato un piano di ricostruzione che prevedeva Damian Lillard come uomo franchigia, sia da punto di vista tecnico che di immagine. Il numero zero nativo di Oakland, considerato da parte del mondo Nba ancora non pienamente espresso, anche per un carattere introverso, è stato sin dall'inizio la pietra angolare su cui porre le fondamenta per la rinascita di Rip City. Insieme a lui è cresciuto in maniera esponenziale C.J. McCollum, per non parlare dei vari Al Farouq Aminu, Meyers Leonard, Allen Crabbe, Ed Davis, insomma i pochi sopravvissuti alla rivoluzione estiva. Il resto è arrivato dal mercato: Henderson e Vonleh da Charlotte per Batum, Mason Plumlee da Brooklyn. L'allenatore è invece rimasto lo stesso, quel Terry Stotts già assistente in panchina di Rick Carsisle, da cui ha appreso lo stesso stile oxfordiano a bordo campo e una conoscenza raffinata della pallacanestro offensiva. Liberatosi degli isolamenti per Aldridge, e senza più un centro di ruolo accanto come Lopez, Stotts ha costruito un nuovo sistema di gioco, fatto di pick and roll e tiro da fuori, predicato sulle caratteristiche migliori del suo backcourt, Lillard e McCollum, già positivi in pre-season.
Che poi nessun giocatore dei Portland Trail Blazers sia finito all'All-Star Game di Toronto (clamorosa l'esclusione di Lillard), è stato un torto a cui si è solo parzialmente rimediato con l'assegnazione del premio - meritatissimo peraltro - di most improved player a McCollum. Un inizio di stagione altalenante è stato poi seguito da una regular season esaltante, che ha condotto Portland addirittura al quinto posto nel ranking della sempre competitiva Western Conference. Dal tanking ai playoff, si è detto, anche qui con un pizzico di retorica di troppo, perchè una squadra che ha Damian Lillard come playmaker troppe partite non può riuscire a perderle. E, dato che la buona sorte aiuta gli audaci, ecco spuntare durante il primo turno di playoffs la disintegrazione causa infortuni dei Los Angeles Clippers, ribaltati dopo i k.o. di Paul e Griffin (anche se in quel momento si era sul 2-1 con serie ancora aperta). Subito dopo la sfida contro i Golden State Warriors momentaneamente orfani di Steph Curry, recuperato dai campioni proprio quando il suo apporto era divenuto necessario (gara 4, avvio da sogno di Portland sul 16-2). Il resto è storia recente, l'MVP che fa l'MVP e Lillard che gli si oppone de fenomeno qual è. Più interessante il futuro, perchè i Blazers hanno spazio salariale per attirare free agents in Oregon e, soprattutto, un sistema di gioco che può convincere più di lustrini e paillettes presenti in altri lidi più blasonati.