Al peggio, in casa Los Angeles Lakers, non sembra esserci mai fine.  

Che i presupposti ad inizio stagione non fossero dei più esaltanti, lo si era capito dai movimenti estivi della società e dalle prime uscite pre-stagionali, quando assieme al ritorno in campo di un Kobe Bryant sul viale del tramonto, erano stati chiamati a dare un apporto in termini di caratura vincente e personalità Metta World Peace (reduce dalla parentesi canturina) e Roy Hibbert, oltre a Marcelinho Huertas e tanti altri. Il mix tra giovani e anziani sembrava poter dare quantomeno qualche frutto, se non nell'immediato, in ottica futuro recente, con la scelta del draft di D'Angelo Russell che sembrava lasciare un barlume di speranza per gli anni a venire. Tutt'altro. Un'annata nata male, costruita peggio, terminata nell'unico modo in cui potesse naturalmente concludersi. 

Sono passati soltanto 15 anni dall'inizio del millennio che lanciava i Lakers, quelli veri, belli e scintillanti di Phil Jackson nel gotha del basket mondiale, non solo statunitense. Cinque i titoli conquistati da Bryant, O'Neal e compagni, i cui litigi sono sempre stati finalizzati alla vittoria finale, lasciando da parte protagonismi ed isterismi vari quando sul parquet c'era la necessità di portare a casa un risultato che andasse ben oltre il proprio modo di vedere il mondo circostante. Quelli eran giorni: perché il magico mondo a tinte giallo-viola si colorava con i colori di Robert Horry, di Derek Fisher, di un ambiente che seppur polveriera spingeva la franchigia verso il fine ultimo. Erano i Lakers di coach Zen, quello che univa, da collante, e raramente divideva (tutt'altra cosa rispetto alle parentesi degli ultimi anni, ma quella è un'altra storia). 

Per il terzo anno di seguito una delle due franchigie più titolate della storia della NBA non farà i playoff, ma la notizia, stavolta, è quella che fa meno male. Poco importa. Il pericolo più che mai concreto, dopo un'altra stagione nefasta, è di guardare al futuro con poche speranze, forse nulle. Non è il pessimismo leopardiano di un tifoso deluso, bensì la reale coscienza di quel che è diventato l'ambiente attorno ad una franchigia che stenta a rialzarsi dalle proprie ceneri. La ciclicità con la quale le società statunitensi crollano, sportivamente parlando, per poi rialzarsi improvvisamente, fanno sempre capo ad una gestione lucida ed oculata della gestione del tutto: squadra ma non solo. Quello che sembra mancare, al di là di una gestione tecnica e di una struttura di squadra, è una società capace di pianificare con sagacia e lungimiranza gli anni futuri.

Il baratro, sotto molti punti di vista, che si prospetta dopo l'addio di Kobe Bryant, potrebbe essere colmato dall'arrivo di una superstar in grado di sopperire alla mancanza del 24, quantomeno sul parquet, ma ciò che deve essere rifondato sono le fondamenta. Senza una struttura sufficientemente salda difficilmente negli anni a venire, per quanto gli investimenti possano essere ingenti (già, perché i soldi spesso non fanno felicità e risultati, basta guardare leggermente a nord, zona San Francisco), si torneranno a vedere i Lakers vincenti in campo, riflesso di una dirigenza che brancola spesso nel buio e che non riesce a tener lontani dai riflettori giovani lasciati allo sbaraglio più totale, in campo ma soprattutto fuori. Non ultimo il caso di Russell, messo ai margini dal gruppo dopo aver devastato l'animo di uno spogliatoio ferito già abbondantemente nell'orgoglio dalla peggior stagione di sempre (15 le vittorie). 

Non solo. La conseguenza di questa sciatteria da parte di tutti (squadra, staff tecnico e società) ha contribuito a mettere a referto, non più tardi di cinque giorni fa, la peggiore sconfitta della storia della franchigia. Umiliante il -48 subito dagli Utah Jazz, che fa da contraltare ad alcune prestazioni quali la vittoria sui Golden State Warriors, che getta fango e macchia il ritiro della stella più lucente del basket a stelle e strisce degli ultmi anni. Le luci dello Staples Center sono soffuse ed accompagneranno nel modo peggiore l'ultima uscita dal parquet di casa di Kobe, affranto ed impotente (forse non del tutto) davanti al logorio del suo fisico e alla riluttanza del roster a lottare per qualcosa di più di una semplice vittoria. 

Costruire il futuro da questa situazione è quanto di più difficile possibile per chiunque: il terzetto composto da Phil Jackson, Luke Walton e Kevin Durant sembra essere la speranza più rosea per i prossimi anni. Dalle stelle alle stalle, in poco più di un decennio, con biglietto per il momento di sola andata. La speranza del resto si sa, è l'ultima a morire.